FREE FALL JAZZ


Estate, periodo tradizionale di grandi festival musicali, in particolare del jazz, almeno così si dice. Già, perché di jazz da parecchio tempo se ne sente sempre meno e per svariate ragioni. A fronte di affermazioni di questo genere il minimo che può capitare è sentirsi dare del retrivo conservatore, del “purista” vecchio ed ottuso e pure un po’ rincoglionito, insomma uno che non sta al passo con i tempi, perché il jazz, secondo vulgata, è ormai un linguaggio universale fuso con altri linguaggi musicali.

Certo, ben sappiamo quali sono i cosiddetti “tempi” che viviamo, in una nazione i cui cittadini brillano notoriamente per istruzione, cultura, innovazione, genio e creatività (soprattutto in fatto di truffe più o meno legalizzate ai danni della comunità). Ce lo dicono tutte le statistiche internazionali. Siamo “i migliori”, ai primi posti in quasi tutti i settori, specie in fatto di jazz, dove i più obiettivi hanno il buon gusto di affermare che siamo “secondi solo agli americani” (insomma, forse, dipende, mah…). Lo dicono anche giornali e telegiornali, sempre più forieri di slogan scambiati per informazione: i più grandi jazzisti li abbiamo noi e il jazz, ultimamente si è scoperto, è persino di nostra invenzione, me lo ha detto anche il mio elettricista.

Ci siamo esercitati in questi anni di gravissima crisi con gli slogan, giusto per tirarci  un po’ su il morale (c’è un saggio detto del dialetto bergamasco che recita: “Chi g’ha mia ‘antadur i se ‘anta de per lur”, cioè, tradotto per i non praticanti l’arduo vernacolo orobico: “Chi non ha estimatori si vanta da solo”) e anche nel jazz pare che non ci si voglia far mancar nulla. D’altronde, per chi ha un pochino di memoria – facoltà ormai abbondantemente persa in questo smemorato Paese – ci si dovrebbe far tornare alla mente gli slogan ottimistici di un uomo di indubbio recente successo, affermato barzellettiere, autoproclamatosi “il miglior statista che l’Italia abbia avuto dopo De Gasperi”, (ma guarda un po’, anche lui secondo…) all’epoca dell’esplosione della crisi con il caso Lehman Brothers: “l’Italia è il paese che risente e risentirà meno della crisi”. Infatti, siamo tra gli ultimi a uscirne, forse…Un po’ come il successo senza “se” e senza “ma” dell’EXPO, dichiarato prima ancora della sua inaugurazione (mica che poi tocchi beccarti del “gufo”, equivalente al “disfattista” di mussoliniana memoria, non sia mai), o certe affermazioni apodittiche del recente passato, del tipo: “Il calcio italiano è il più bello e difficile del mondo”, come in effetti dimostrano i grandi successi mondiali mietuti nell’ultimo lustro. Calciopoli, scommessopoli e via un successo dopo l’altro, con le società indebitate sino al midollo e diverse in fallimento, con stadi decrepiti e sempre più vuoti.  O ancora, l’evocazione del cosiddetto “Made in Italy”, che, come è noto “ci invidiano in tutto il mondo” (altro slogan molto frequentato, buono per tutte le occasioni) ormai ridotto al cibo (giusto per far concorrenza al fast food di Mc Donalds) e a quattro straccetti di sartoria, fabbricati in paesi dove lo sfruttamento del lavoro è permesso, con l’aggiunta della famosa  “griffe”. Un “know how” tutto (?) italiano che senza alcuno sforzo centuplica di botto i profitti.

Che c’entrano il Jazz e i relativi festival in tutto questo? Molto, esattamente come può entrarci qualsiasi cosa si collochi in un contesto generale di questo tipo con l’utilizzo di risorse pubbliche (o, nel caso, camuffate da private, con la presenza di società partecipate notoriamente generatrici di buchi nei bilanci delle amministrazioni pubbliche), fatto di mistificazioni, fumisterie e operazioni di marketing di quart’ordine, portate avanti da affabulatori dediti quotidianamente alla cialtroneria organizzata col mal celato fine dell’interesse privato fatto in nome del “popolo” (bue), considerato sempre più facile da gabbare.

Leggendo i cartelloni dei vari festival da tempo vengono da chiedersi diverse cose, alcune anche in apparente conflitto tra loro. Quello che balza con evidenza all’occhio è che spesso essi si costruiscono su una manciata di nomi, i soliti che girano inflazionati oltre ogni dire, il che fa pensare che più che costituire un servizio verso l’acculturamento musicale dei cittadini, sia più un servizio rivolto verso il business degli addetti ai lavori, nei vari ruoli che loro competono. Per quel che mi riguarda, la cosa la trovo metodologicamente conforme a quanto avviene in altri servizi che dovrebbero essere dovuti verso i cittadini. Cultura, istruzione, salute, sicurezza e quant’altro del genere, sono beni immateriali che servono ad elevare il livello qualitativo della vita dei cittadini e purtroppo funzionano ormai più o meno tutti allo stesso modo: è il servizio stesso che diventa funzionale ai suoi operatori e all’esistenza della relativa struttura che lo produce e non il viceversa. Non bisogna essere degli esperti di teoria dei sistemi per comprendere come un inversione del ciclo operativo di questo genere comporti l’esatto contrario dell’obiettivo della qualità del servizio, sempre associato con una contemporanea conseguente grande dispersione di risorse economiche.

Il panorama musicale intorno al jazz è assai più interessante, creativo e vasto di quanto non venga rappresentato in gran parte nel nostro paese, in un circolo vizioso che viaggia volutamente tra il settario e il provinciale con fini culturali non così chiari come si vorrebbe far apparire. Basta avere il coraggio, la voglia e la curiosità necessaria per informarsi e acculturarsi in modo più attivo e personale per scoprirlo e domandarsi perché certi grandi musicisti nemmeno sono conosciuti di nome in questo paese. In tal senso, una ambigua e interessata ricerca della contrapposizione tra musicisti americani e europei, tra un cosiddetto “mainstream americano” indice di bieco conservatorismo e retroguardia jazzistica e una supposta altrettanto generica scena musicale europea più creativa e innovativa, ha un che di pretestuoso più che di culturale ed è sin troppo facilmente confutabile.

Curioso poi è l’atteggiamento critico verso il jazz più classicamente inteso e l’utilizzo del relativo termine. Tutti se ne vogliono affrancare e andare oltre quel linguaggio (specie se si litiga tutti i giorni con lo strumento nel tentare di utilizzarlo con adeguata idiomaticità), per sentirsi più evoluti, creativi ed innovativi, proponendo musiche improvvisate che sempre più spesso col jazz non hanno il benché minimo aggancio, tra un free ormai ammuffito più di un mainstream in sbiadita copia in carta carbone e una sorta di scimmiottamento di una contemporanea di quarta battuta. E poi, parliamoci chiaro, se il termine “Jazz” fa così schifo ed è così superato, perché non abbandonarlo del tutto? Proviamo ad intitolare i cartelloni più coerentemente e dignitosamente con titoli del tipo: “Festival di musica creativa improvvisata”, dopo di che sarà interessante vedere l’effetto pratico che fa a livello di riscontro pubblico.

Il problema dei festival jazz che non sono più di jazz non è poi riconducibile solo alla presenza anomala della Lady Gaga di turno, che tanto scandalo crea nelle anime belle ed artistiche dei suoi detrattori. Volendo ben vedere progetti pregiudizialmente giudicati geniali, ma viziati da un vetusto gigantismo musicale, come il Sonic Genome di Braxton, fatto passare per assoluta innovazione e avanguardia musicale, costituiscono in definitiva l’altra faccia di una stessa medaglia, quella che vede nella sostanza, come comune denominatore  e dato di fatto, il jazz totalmente assente.
(Riccardo Facchi)

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