FREE FALL JAZZ

Portare il cognome Marsalis presso una consistente fetta di critica nostrana è quasi un’implicita colpa e, ormai da decenni, sinonimo di “conservatorismo jazzistico” e di negazione della cosiddetta “creatività.” In sostanza non è biglietto da visita che aiuti a ricercare un approccio musicalmente attento e privo di pregiudizi all’atto dell’ascolto, come invece si dovrebbe sempre fare con chiunque. Conseguentemente, un disco di solo sassofono può destare l’interesse di certe orecchie, se confezionato da qualche improvvisatore radicale di una avanguardia che fu, ormai abbondantemente attempata, ridotta sempre più spesso ad esibirsi in una stanca collezione di sofisticate e “intelligenti” pernacchiette, inframezzate da fischi e stridor di denti, il tutto regolarmente scambiato per grande ed innovativa musica esclusiva, per soli veri intenditori chìc.

Fortunatamente gli improvvisatori di razza delle successive generazioni a quel genere di avanguardia sono andati oltre certi vetusti schemi, continuando a produrre musica personale e di qualità, infischiandosene di certe etichette pregiudiziali loro affibbiate. Uno di questi è senz’altro il cinquantacinquenne Branford, fratello maggiore del più noto (e da molti detestato) trombettista Wynton Marsalis. Sassofonista sopraffino, sia al tenore che al soprano, negli anni è progredito costantemente, sino ad arrivare a quella piena maturità che gli permette oggi di affrontare una ardua impresa come quella del “solo concert” sassofonistico, con buone possibilità di riuscita, producendo musica di alto magistero esecutivo e di sostanza, consapevole della necessità di non tediare il pubblico, rimanendo su un piano di “leggibilità” possibile anche ai comuni mortali. Una musica quindi incentrata naturalmente sull’aspetto melodico, contenente un po’ tutti gli ingredienti tradizionali del jazz, pensata e rivolta a chi ascolta e non l’esibizione privata di esercizi fonici sbattuta in faccia al pubblico, in barba all’integrità delle orecchie del povero malcapitato ascoltatore di turno, che deve avere la compiacenza di immedesimarsi nell’arte esclusiva e suprema dell’esecutore senza batter ciglio.

Escludendo per l’appunto gli improvvisatori delle avanguardie post free (per le quali l’esibizione in solo è tratto relativamente frequente) e rimanendo in un sostanziale ambito tonale, non sono molti i sassofonisti che nella loro carriera si sono dedicati all’esibizione solitaria: Coleman Hawkins, Sonny Rollins, Steve Lacy, Bobby Watson, non molto altro mi viene alla mente e comunque ne costituiscono i principali precursori e/o precedenti. Per la realizzazione della registrazione, Marsalis ha scelto un concerto live presso la storica sede della Grace Cathedral di San Francisco, spazio doppiamente sacro per i jazzofili, dal momento che fu il luogo della prima esecuzione per Duke Ellington del suo Sacred Concert nel 1965 (di cui esiste il video in commercio), predisponendo un ben studiato programma di composizioni di vario genere, alternate a 4 libere improvvisazioni. Sul piano strumentale, Marsalis si cimenta tra sax soprano (in sei brani) e tenore (nei restanti cinque).

Con l’iniziale Who Needs It?, (composizione di Steve Lacy presente nel suo CD “Sands”) eseguito al soprano, il ricordo va inevitabilmente al Lacy di “Axieme” e altre sue  opere coeve, sia per l’effetto riverbero proprio della cattedrale che per il modo di finire le note, con un leggero vibrato, per quanto il timbro e il fraseggio di Marsalis siano alquanto diversi da quello del suo referente. Analogamente per il tenore, si può dire che egli abbia ormai elaborato uno stile personale, che va oltre i riferimenti coltraniani e shorteriani degli esordi e che risale più propriamente alle radici storiche dello strumento. Tra Coleman Hawkins e Sonny Rollins, passando per Ben Webster e Stan Getz, l’ormai maturo sassofonista pare aver imboccato una strada diversa, peraltro presa da molti tra le nuove leve sassofonistiche, affrancandosi da coltranismi vari e dall’approccio scalare allo strumento, incentrando l’attenzione più sull’aspetto melodico/tematico e le relative inflessioni di espressione nella timbrica strumentale. Tutto questo si può osservare nella splendida versione di Stardust, non a caso forse la melodia per antonomasia del vastissimo “American Songbook”. Tra l’altro lo stesso Marsalis ha evidenziato pubblicamente che all’ascolto della registrazione si è reso conto di aver suonato nell’occasione due volte il brano, pur avendo preparato più in là nel programma concertistico l’altro immortale, “Body and Soul”, evidentemente in uno stato di momentanea assenza mentale, con risvolti persin comici.

Nell’ampio ed eclettico spettro nelle scelte compositive, si evidenzia la Sonata in La minore per oboepoco adagio di Carl Philipp Emmanuel Bach, suonata quasi fedelmente al tenore con una sonorità non casualmente nasale, prossima al timbro di quello strumento e un immancabile omaggio al blues in Blues for One. Marsalis non ha lasciato nulla di intentato, cimentandosi anche nella astratta ricerca timbrica e multifonica “avant-garde” in MAI, Op.7, composizione di Ryo Noda, con grande controllo tecnico ed estetico.

In definitiva, siamo di fronte ad un’opera compiuta e ad un musicista serio, che merita senz’altro il rispetto e l’attenzione che gli sono dovuti. Chissà che qualcuno, più preso da se stesso che dalla musica che ascolta, riesca prima o poi ad accorgersene.
(Riccardo Facchi)

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