FREE FALL JAZZ

Parafrasando Stanley Crouch in un suo scritto di presentazione ad un disco proprio di Steve Kuhn, tre è un numero ideale per un gruppo jazz, specie quando è composto da musicisti di talento, grande esperienza e disposizione alla disciplina, come appunto sono lo stesso Kuhn, Buster Williams e Billy Drummond, peraltro da considerare autentiche icone del jazz relativamente al rispettivo strumento. Si può ben dire che il pianista americano, nativo di Brooklyn, abbia in carriera attraversato un po’ tutte le stagioni del jazz moderno, dal bop  sino al free, sperimentando approcci al jazz anche alternativi (si pensi ad un disco eccelso ed originale come la October Suite, inciso nel 1966 in compagnia di un genio della composizione e dell’arrangiamento come Gary Mc Farland in un periodo in cui dominavano grandi opere di musica liberamente improvvisata), mantenendo tuttavia la propria peculiare identità artistica ed estetica e destando tra l’altro l’interesse di un Manfred Eicher, che non a caso ingaggiò Kuhn per la sua ECM a metà anni ’70.

Ottima e pertinente è stata perciò l’idea di concludere la manifestazione milanese dedicata al “mainstream” con una tal genere di protagonista del pianismo jazz, in un concerto, stavolta serale e di inizio settimana lavorativa, che ha semplicemente confermato le aspettative e ha dato seguito all’alto livello dei concerti complessivamente proposti in cartellone. L’ingresso dell’ormai settantasettenne Steve Kuhn sul palco del teatro, dal passo malfermo, devo ammettere che mi ha un po’ preoccupato, ma è stato abbondantemente compensato dalla ancora salda agilità delle sue mani sullo strumento e soprattutto dalla sobria sapienza musicale e leadership, evidenziate per tutto il concerto. Il pianista newyorkese, infatti, ha esaltato la sua innata classe ed eleganza, associata ad uno stile ed una estetica assolutamente personali, pur essendo così intrisa di classicità jazzistica e così ricca di quei riferimenti propri dei pianisti della sua generazione, che vanno da Monk a Jamal sino a Bill Evans, uniti ad una evidente ampia e consolidata conoscenza, specie sul piano armonico, del pianismo romantico e impressionista europeo. Colpisce in Kuhn l’abilità compositiva, associata ad una vastissima conoscenza del cosiddetto “Great American Songbook” non a caso annunciato proprio da Kuhn ad inizio esibizione nel programma di brani da svolgere.



Si inizia, pur con qualche problema di bilanciamento del suono sul palco da risolvere, con l’esposizione di Yesterday’s Gardenias, una vecchia canzone in genere poco frequentata dai jazzisti, ma più volte incisa in discografia da Kuhn, affrontata con buon piglio e swing dai tre artisti, ma più che altro utile ad assestare l’amalgama di gruppo e a favorire il fluire della musica con progressivo miglioramento dell’intesa reciproca. I due brani successivi, infatti, composizioni originali del pianista, vedono crescere il livello musicale, con particolare riferimento al secondo dei due, introdotto da un inaspettato intervento vocale del pianista, dalla linea melodica davvero sofisticata e caratterizzato da una strutturazione ritmica che ha visto un brillante Billy Drummond gestire interessanti variazioni di metrica e di ritmo. Diversi sono stati i cambiamenti: dal ¾ proprio della composizione al 4/4 swingante in improvvisazione, affrontato anche a velocità diverse, per ritornare infine all’iniziale tempo dispari. Forse il momento più ardito del concerto. Si prosegue con atmosfere più latine con Magic Samba, composizione di Buster Williams contenente un suo ottimo assolo, e una sentita interpretazione di Angela di A.C. Jobim (brano anche rintracciabile nel suo CD “Oceans in The Sky”- Owl), che ha messo in mostra tutto l’amore del pianista per il grande compositore brasiliano e il personale approfondimento della sua musica, sempre magistralmente supportato dalla sensibilità musicale e precisione esecutiva dei due compagni al basso e alla batteria. Forse la vetta estetica del concerto si è raggiunta con una esecuzione di gran classe di Born to be Blue, una composizione di Mel Tormé già splendida di suo, ma esaltata dalla finezza e perizia dei tre maestri. Finale di programma concertistico abbastanza oltre gli schemi tipici del mainstream e che ha messo in ampia evidenza anche gli aspetti solistici dei tre, dedicato ad una sorta di lunga suite realizzata dall’unione di due tra le più note composizioni di Kuhn: Trance, incisa sin dal 1975 su ECM in un disco omonimo e Oceans in the Sky.  Immancabile bis, con un altro brano originale dal titolo The Zoo.

Probabilmente c’è chi nell’accostarsi ad un concerto jazz ama il fattore sorpresa sopra ogni cosa e potrebbe trovare l’ascolto di musica conforme alle aspettative un limite più che un pregio, ma non infrequentemente le sorprese con la musica improvvisata possono rivelarsi negative e, ogni tanto, un po’ di rassicurante buona musica suonata da autentici maestri, può rivelarsi appagante. Certamente questo concerto lo è stato.
(Riccardo Facchi)

Comments are closed.