FREE FALL JAZZ

Diciamoci la verità. In Italia il jazz, o quello che comunemente si passa oggi per tale in modo talvolta ambiguo e discutibile, è una musica diventata da tempo di nicchia, che interessa ad una parte ristrettissima di cultori e fruitori più o meno costanti, per lo più anche abbastanza attempati. Si dice che la cosa dipenda fondamentalmente da una pessima educazione musicale, specie a livello scolastico, e più in generale da un degrado culturale da tempo progressivamente in corso. Tutto vero, ma forse non basta a giustificare la situazione e occorrerebbe anche analizzare criticamente e nel dettaglio altri fattori più specifici. Si potrebbe partire dal modo in cui esso viene presentato e divulgato da decenni: orrendamente noioso, pseudo intellettualistico ed immotivatamente elitario, capace quindi di mettere in fuga anche i ben intenzionati, o, per altri versi, faziosamente nazionalistico. Verrebbe da domandarsi se la preoccupazione di chi vi opera più o meno professionalmente, cioè manager, direzioni artistiche, critica e musicologia, è davvero quella di migliorarne la diffusione. Dai tempi di Arrigo Polillo, a mio avviso uno dei pochi che ha fatto appassionata divulgazione jazzistica nel nostro paese con buoni risultati pratici, il pubblico del jazz è andato sempre più assottigliandosi. Del resto basterebbe chiedere ai direttori delle riviste nazionali di settore circa l’andamento storico delle relative tirature per averne conferma, o alla maggior parte delle direzioni artistiche dei festival che, rinunciando a mettere in cartellone nomi di richiamo di altri generi musicali più frequentati, vedono platee dei teatri sempre più difficili da riempire. Ci sono quindi diverse concause intrecciate, tra cui andrebbero certo valutati anche fattori contingenti come il prolungarsi della crisi economica, internet e il downloading, lo sperpero nella gestione di soldi pubblici, da cui non pare esente nemmeno l’ambito cosiddetto “culturale” nel quale la musica rientra. Tutto giusto e tutto da considerare nella sua complessità, senza superficialità e pressapochismi di sorta che in questa sede sarebbero inevitabili. Applicando una specie di “principio di sovrapposizione degli effetti” al processo divulgativo, linearizzandone i comportamenti, vorrei rimanere nel merito delle peculiarità con le quali si presenta il pensiero, ricco di luoghi comuni, del cosiddetto “ambiente nazionale” intorno al jazz, visto ovviamente da un personale e quindi soggettivo punto di vista.

Innanzitutto, continuo oggi a intravvedere in gran parte degli scritti sulla materia un vetusto approccio ideologico, riconducibile ad un pensiero politico italico, cosiddetto “di sinistra”, zeppo di-ismi anni ’70, sostanzialmente esogeno al contesto cui viene maldestramente applicato e ormai abbondantemente “out”. Un approccio che porta spesso a travisamenti se non a deduzioni falsanti, ma che vengono considerate dai più ancora dei postulati. Uno di questi è che il movimento del Free Jazz anni ’60 (e in parte un analogo discorso lo si è fatto anche per l’antecedente Be-bop del dopoguerra) sia stato un momento di rottura pressoché definitivo tra un prima e un poi jazzistico. Una rivoluzione copernicana che avrebbe invecchiato e annichilito tutto ciò che proveniva o semplicemente si agganciava ad una tradizione che non sarebbe più potuta tornare, in una sorta di progresso ed emancipazione che in realtà non ha alcun riscontro nel cosiddetto “continuum” africano-americano, fonte ineludibile dalla quale ha attinto e ancora attinge il grosso del movimento jazzistico. Da quel momento, ancora oggi si assiste ad una valutazione critica nelle musiche abbastanza schematica e manichea che discriminerebbe implicitamente, e forse anche inconsciamente, jazzisti e jazzofili tra “tradizionalisti-conservatori”, nostalgici dello “swing” e amanti del cosiddetto “mainstream”, e “avanguardisti-progressisti” aperti alla universalità del linguaggio e alle cosiddette “contaminazioni”. I primi, mentalmente vecchi e chiusi alle istanze innovative, con lo sguardo rivolto sempre al passato, i secondi, veri intellettuali chic della musica, aperti di mente e al progresso musicale. Sicché se un jazzista oggi propone della mera libera improvvisazione a distanza di un cinquantennio (!) dall’avvento di “Free Jazz” di Ornette Coleman, può essere tranquillamente ritenuto avanguardia a priori, se suona del “mainstream”, anche se aggiornato, è sostanzialmente un conservatore tradizionalista dedito alla filologia. Di fatto, non si capisce perché se si considera una certa fase di 60 o 70 anni fa come storicizzata e appartenente alla classicità, non lo sia anche una di 50, in una musica che peraltro è progredita assai velocemente (c’è meno distanza temporale tra gli Hot Five di Armstrong e il Free, che tra il Free e il jazz di oggi). Per quel che mi riguarda trovo molta musica liberamente improvvisata, di ieri e di oggi, datata o da tempo creativamente esaurita. Conseguentemente mi trovo, solo ad esempio, a leggere libri di storia del jazz, presentati come innovativi, che descrivono un panorama attuale e futuro vistosamente parziale, se non settario e distorto, incentrati sui settantenni di un’avanguardia chicagoana che fu (il centro musicale americano è oggi come allora New York, non Chicago), tesi più a giustificare certe opinioni e valutazioni dei loro autori che alla ricerca di riscontri e fatti, come si dovrebbe sempre fare quando si scrive di storia – a meno di considerare sé stessi storia. In contemporanea, si verifica un fiorire di mistificazioni sul jazz allarmante, perché pare riescano a fare più presa delle verità storiche. Non a caso, ultimamente hanno preso piede vere e proprie enormità nel nostro paese, come la faccenda della presunta paternità italiana del jazz (magari e come minimo, occorrerebbe spiegare che essere italiani o italo-americani non è esattamente la stessa cosa). La formazione jazzistica poi è gestita in modo opinabile tra scuole jazz, università e conservatori, per lo più da operatori (sempre gli stessi) di una certa stagione politica e storica, che tendono a dare una visione della materia parziale e unidirezionale, soprattutto priva di confronto dialettico, basandosi talvolta su tesi soggettive adattate in modo improprio alla musica americana e poi ripetute acriticamente dalle nuove generazioni. Questa specie di indottrinamento filosofico manca quindi di un reale arricchimento progressivo nel pensiero e nelle idee, nel merito di un assai complesso e diversificato ambito sociale, culturale e quindi musicale come è quello del continente americano. Che il jazz più recente possa poi essere descritto e divulgato in forma di mitopoiesi centrata su una manciata di autori, senza cercare di districare la matassa di plurimi contributi di musicisti provenienti dalle diverse etnie presenti sul territorio americano e delle relative fonti musicali ad esse legate, ha un che di incomprensibile. Per non parlare del contributo delle musiche provenienti dall’area caraibica e sudamericana, considerate in modo davvero bislacco da molti ancora una sorta di “esotismo”. L’impressione è che molta musicologia jazzistica continui a vedere tutto nell’ottica di un’impostazione accademica e tenda ad applicare al jazz e alla musiche americane una visione inconsciamente europeizzante, arrivando a distorcerne peculiarità e valori su tale base. Un po’ come a supporre inconsapevolmente che solo noi europei sappiamo definire i contorni di ciò che è considerabile arte musicale anche in ambiti che fondamentalmente e per lungo tempo ci sono stati estranei. Balza all’occhio, non a caso e ad esempio, una certa implicita sopravvalutazione dell’aspetto compositivo, in particolare della relativa complessità strutturale e armonica e una contemporanea sottovalutazione di quella ritmica ed espressiva, che sono invece centrali nella cultura jazzistica e afro-americana in particolare. Oppure, spicca in certi scritti sul jazz la frequente distinzione tra arte e entertainment musicale, distinzione che invece è più difficoltosa di quanto non si creda, visto che nella musica americana ci sono risvolti e sfumature assai variegate e la cesura non è così netta.

Altro si potrebbe dire sulla ballabilità della musica, considerata implicitamente come un minus valore artistico, dimenticando che l’aspetto della fisicità nella musica americana e afroamericana è diffuso e forse ineludibile (bebop compreso, e cosa diciamo poi dell’epocale fenomeno del Rock?). Per non parlare dell’abusato concetto di “musica commerciale” spesso confuso con “popolare”, che non è esattamente la stessa cosa: lo stesso jazz è sempre stato di fatto parte della musica popolare, comunque non pensato per una ristretta nicchia di cultori un po’ blasé. Purtroppo, fare associazioni mentali automatiche, del tipo “musica di nicchia = musica d’arte” e “musica popolare = musica commerciale” è il passo che ne consegue, per quanto ingiustificato e facilmente confutabile. A meno che io debba seriamente mettere in discussione la superiorità artistica di Stevie Wonder rispetto a quella di un Mario Schiano, che evidentemente deve essermi sfuggita. Il fatto che un autore sia diventato miliardario con la propria musica e la propria professione è un possibile effetto che dovrebbe rimanere pressoché ininfluente nelle valutazione musicali ed artistiche e in nessun modo può essere utilizzato come preambolo critico, applicando una sorta di pietoso pauperismo artistico mistificatorio, strumentale e pure abbastanza straccione. Mi domando allora se è arte o commercio produrre quella sorta di “fake” jazzistico con la canzone d’autore italiana, magari presentato insieme a qualche protagonista della stessa. Io propendo decisamente per la seconda ipotesi, ma non mi pare di aver letto mai niente del genere al riguardo da certa critica, evidentemente rigorosa a corrente alternata, su sciatterie musicali del genere prodotte da diversi acclamati musicisti nazionali. Tutt’altro. Due pesi e due misure, insomma. Peraltro sarebbe il caso di sottolineare che oggi il marketing ha invaso ogni cosa e si occupi di commercio e non di arte anche nei settori di nicchia, ricavandone discreti profitti economici, gratificando chi sente il bisogno di possedere uno “status” culturale e appartenere in qualche modo ad una qualsiasi forma di élite. In questo senso certi acritici cultori degli odierni prodotti di marca ECM potrebbero esserne un emblematico esempio.

Qui mi fermo, anche se si potrebbe andare avanti, rischiando forse la noia. Non ho la pretesa della condivisione e forse questo scritto potrà essere considerato da qualcuno presuntuoso e indisponente. Può anche essere e in un certo senso lo comprendo, ma sono esattamente gli stessi aggettivi che mi sono venuti alla mente pensando a chi si prende la briga di scrivere, pubblicare o divulgare opinioni soggettive, spesso volgarmente faziose, per verità storiche. Ad ognuno il suo.
(Riccardo Facchi)

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