E’ difficile fare valutazioni complessive per una rassegna, come quella di questa edizione, nella quale chi scrive non ha potuto assistere a tutti i concerti in programma del Festival, alcuni dei quali, come quello del trio del chitarrista Nels Cline, fonti attendibili mi dicono essere stati di buon livello. Tuttavia, un’idea pensiamo di essercela fatta seguendo i concerti delle tre serate al Donizetti e il concerto pomeridiano del sabato all’Auditorium di Piazza della Libertà del Trio di Vijay Iyer.
Iniziando con le considerazioni a margine della musica, tutt’altro che superflue, occorre dire che è stato un ben consolidato successo di pubblico. Si tratta di una delle più longeve manifestazioni nazionali autenticamente jazzistiche rimaste sul territorio, un evento cui la città tiene ad assistere. Gran parte dei concerti è infatti andata sold out sin dalla prevendita, e di questi tempi non è poco.
Non troppo positiva è invece la valutazione personale sulle proposte che si sono potute ascoltare, non tanto per il livello dei concerti, peraltro notevolmente diseguale, ma per l’eterogeneità delle proposte che, nel lodevole tentativo di coprire più generi e gusti possibili, ha generato perplessità circa la coerenza nella composizione e nell’accoppiamento dei gruppi da presentare sera per sera, rivelando alla fine un non chiaro filo conduttore progettuale nelle scelte effettuate dalla direzione artistica.
Cominciamo col segnalare le note positive relative al concerto del quartetto di Mark Turner e del trio di Vijay Iyer, quest’ultimo con qualche distinguo. Il sassofonista ha dato vita ad un set molto compatto fatto di composizioni originali ben congeniate, coadiuvato dall’ottimo Ambrose Akinmusire alla tromba e, più in generale dagli eccellenti componenti del gruppo. Turner possiede una sonorità particolare non possente ma efficace, molto in linea con un fisico longilineo e insolitamente esile per un sassofonista tenore, buona tecnica e un fraseggio articolato e moderno, senza inutili virtuosismi e con grande controllo musicale in improvvisazione. L’estetica musicale si esprime in un ambito assolutamente tonale e si approssima indicativamente a quella di altre esperienze coeve relative a taluni progetti pianoless di sassofonisti come Chris Potter o di trombettisti come Dave Douglas e Alex Sipiagin, ossia quella di un modern mainstream molto aggiornato e ancora creativo, che guarda avanti a sé senza essere dimentico della propria grande tradizione. Ottima anche la prestazione del compagno di front line Akinmusire, dotato di una bella sonorità e che ha evidenziato un trombettismo maturo, certamente figlio della grande tradizione hard-bop che va da Clifford Brown a Booker Little, ma senza eccedere in virtuosismi.
Il Trio di Iyer esibitosi nel pomeriggio di sabato all’Auditorium di Piazza della Libertà ha presentato diversi brani del suo ultimo ottimo lavoro per ECM Break Stuff , riscuotendo ovazioni da parte del pubblico e più d’uno ha parlato di concerto memorabile. Il pianista americano di etnia indiana è per certi versi il jazzista del momento, ma, al di là delle personali idiosincrasie per certi approcci modaioli al jazz che si manifestano sgradevolmente sempre più spesso, la sua proposta ha destato in chi scrive alcune perplessità. In estrema sintesi mi verrebbe da dire che nel suo caso la volontà di ricerca dell’originalità sia persino superiore alla consistenza della musica proposta. Il pianista sa presentarsi molto bene, con aria molto trendy, sia esteticamente che nell’approccio sulla tastiera, esibendo un team molto affiatato e una proposta musicale che, prendendo spunto da certe idee degli E.S.T. del decennio scorso, si approssima a ciò che combinano oggi i Bad Plus, con un utilizzo prolungato di vamp e ostinati ritmici, di sicuro effetto sul pubblico, ma sui quali è in realtà molto più semplice improvvisare. Il pianista ha evidenziato infatti una ottima mano destra, un fraseggio angolare, moderno, che si esalta in brani come il monkiano Work, ben interpretato e che pare fatto su misura al suo pianismo, ma anche una tecnica pianistica poi non così sopraffina e una cultura armonica ancora da affinare.
Secondo le aspettative ma anche senza sorprese i concerti divertenti e professionali di Dianne Reeves e di Fred Wesley&The New JB’s. il primo, con un set di vocal jazz di classe con un programma che ha lasciato ben poco all’estemporaneo e che ha svariato tra l’American Songbook, la musica latina e il pop. La Reeves coadiuvata da un gruppo all’altezza specie nel chitarrista e nel pianista, ha messo in luce tutte le ben note doti vocali e interpretative con un apprezzato set di puro intrattenimento musicale.
La Band dell’ex trombonista settantunenne di James Brown ha sciorinato invece un set ben eseguito di Funk sprizzante energia ritmica da tutti i pori, non sbracato, e non confinato in modo esclusivo al genere. Non a caso il finale è stato dedicato ad una esecuzione molto più jazzistica di Spain, il celebre brano di Chick Corea costruito sul Concierto de Aranjuez di J. Rodrigo.
Il set era stato preceduto da un progetto di tutt’altra natura, il Michael Formanek Cheating Heart Quintet, musicalmente pressoché agli antipodi e molto atteso da quella parte della critica imbevuta di “-ismi”, peraltro maggioritaria, che apprezza una certa forma di avanguardia con lo sguardo rivolto più in direzione delle esperienze compositive della musica accademica europea che a quella jazzistica, convinta che questa sia la giusta direzione che il jazz debba imboccare nel presente e nel futuro. Pur riconoscendo l’abilità individuale dei musicisti coinvolti, con particolare riferimento al contrabbassista leader e all’interessante pianista Jacob Sacks il progetto mi è parso dare peso eccessivo alla scrittura a scapito dell’improvvisazione, mostrando qualche rigidità di troppo e una certa ripetitività nei mood esecutivi, con l’eccezione di un paio di interessanti brani. Il jazz affronta ormai da decenni il complicato rapporto dialettico tra scrittura e improvvisazione e a mio avviso progetti ambiziosi come quello ascoltato mostrano ancora una volta i limiti non risolti della questione.
Molto deludente è stato invece il concerto del Jeff Ballard Fairgrounds, che pure presentava nomi interessanti nelle sue fila (Lionel Loueke alla chitarra e Kevin Hays al piano), con un progetto abbastanza raffazzonato che tra ricerca timbrica e approdi ai ritmi rock e funky non ha evidenziato sufficiente chiarezza di visione circa la direzione musicale da intraprendere. Indicativo e imbarazzante il fatto che il gruppo non avesse preparato un bis da eseguire.
Chiusura del festival con un nome nazionale di richiamo come quello dell’ex direttore artistico Paolo Fresu con la riesumazione del progetto Palatino con Glenn Ferris al trombone, il francese Michel Benita al basso e Aldo Romano alla batteria. Dopo un brillante inizio la musica è progressivamente calata di qualità e reale ispirazione, soprattutto a causa del non buono stato di forma dell’anziano batterista che ha mostrato diverse sfasature ritmiche che hanno condizionato non poco la qualità musicale espressa dal gruppo. Purtroppo il jazz sa essere crudele anche verso suoi stimati interpreti dal curriculum invidiabile, confermando che la riproposizione di progetti musicali del passato tali e quali non è quasi mai foriera di buoni frutti. Quanto alla musica prodotta dal sempre osannato trombettista sardo, può essere definita gradevolmente superflua, camuffata dietro all’apparente magistero strumentale. In definitiva, si poteva fare meglio e di più, arrivederci all’anno prossimo.
(Riccardo Facchi)