FREE FALL JAZZ

Se mi si chiede a bruciapelo del mio rapporto coi dischi, rispondo con aria presunta intelligente che non penso di avere avuto un rapporto con essi: piuttosto al contrario sono loro che si sono presi sempre tante confidenze con la sottoscritta. E i dischi stessi hanno avuto con me tutti i generi di rapporti fin dalla più tenera età! (Pare una frase da giornale gossipone semi-porno, con tanto di pecette sugli occhi e  tripli punti esclamativi) Ma freniamo il finto pruriginoso, e poi ero consenziente, quando si sono presi le confidenze. Glielo ho permesso, non è che si possano contraddire così con nonchalance i monarchi anfitrioni che ti danno di che nutrirti senza chiederti mai nulla, o quasi, in cambio.

Diciamo che ho vissuto come suddita – o forse già col sentore di possibile erede – nel loro regno incontrastato per un numero di anni davvero impressionante, e come ogni suddita di un regno illuminato, un po’ dispotico ma indubbiamente anche decisamente stimolante, mi sono lasciata cullare dalle agognate eredità e dalle fortune pregresse, attingendo alla fonte del vinile già presente, subodorando però che non sarebbe stato per sempre così (facile e allo stesso tempo troppo da sentiero spianato, le vie della Incontentabilità sono infinite). Crescere negli anni sessanta con a disposizione una discoteca (no, non intendevo ballando il geghegè con rita pavone o la tremarella con Edoardo Vianello) immensa ed inquietante, grazie alla fortuna senza merito di genitori super musicofili, e diciamo che la malattia nasceva genetica, incisa a fuoco nel dna, basti pensare a mia nonna che cantava Dinah Washington e Billie Holiday per far addormentare me che ero una neonata decisamente esigente e sui generis (e successivamente cresciuta con  l’equazione  + jazz  – zecchino d’oro).

Come se non bastasse, e come tutte le fissazioni che si rispettino, l’ascolto dei dischi (considerando che a quelle epoche non c’era nessun’altro modo – oltre alla radio – per “ascoltare”) si permutava in automatico nel famigerato Possesso, febbricitante fase della malattia musicofila che per me non è stata in quegli anni né faticosa e neppure dispendiosa, avevo il classico “cocco monnato e buono” (traduzione per chi chiama da fuori Napoli = uovo già sgusciato, cose già lì senza affanni), e potevo spaziare timida e al contempo tronfia (della serie “un giorno tutto questo sarà tuo”: sgrunt, donna incauta, ancora non sapevo che non sarebbe stato del tutto così), toccando con amore e cupidigia vinili accumulati in decenni e decenni, rimpolpati dai rinforzi di uno zio (tuttora vetusto ma brillante possessore di una collezione di classica e jazz da far invidia, dischi che continua ad ascoltare) che si presentava le domeniche mattine con questo o quell’altro dono, come una sorta di benefattore-genio della lampada, e che mi faceva lustrare gli occhi e alimentare le smanie collezionistiche nella fase  finale della musicalissima infanzia.

Con la pre-adolescenza però l’istinto ribelle e la contestazione del patrimonio familiare-privilegio ebbe il sopravvento e si cercarono mezzi individualisti (negozietti di tutti i generi, dal Giancar della Ferrovia – l’odore della carta in cui li impacchettava e l’odore in GENERALE del negozio, mi torna alla mente come madeleine irrefrenabile adesso – a viaggi in mezza Italia da parentado compiacente e cugini più grandi che alimentavano smanie di grandezza con pellegrinaggi in favoleggiati negozi dove si svaligiava con occhi dolci (e molto contributo parentale) tornando a casa con l’aria fintamente riallineata nei binari di una normale adolescenza modello-tutta scena-prima di ripiombare in nuove scorribande verso fasi free (in tutti i sensi), e dove si scopriva una nuova Era,  “ lo scambio” (anche qui in tutti i sensi), nel confronto della tua dotazione (facendoti bella con tutto il patrimonio) con quella degli altri e raggranellavi spiccioli grazie ad altro parentado (che belle le famiglie numerose e ramificate!) che seppur non musicofilo almeno contribuiva ad alimentare le passioncelle delle intemperanti nipoti per avere nuova linfa e alternative nello scambio (pur nella fase contestatoria con acquisti “ indipendenti” e contrapposti, non ho però mai rinnegato il malloppone pre-esistente e più “classico”). Ciò permetteva di avere una voce in capitolo che fosse più personalizzata, e non solo per essere rampolla di una famiglia di fissati per i vinili (e dio solo sa quanto è necessario aver voce in capitolo, quando si “adolesce”-cit-)

I pellegrinaggi nei negozi (che duravano ore, a volte interi pomeriggi colpevolissimi, dopo i quali si dava fondo a tutta l’inventiva adolescenziale per trovare le Scuse Valide), si alternarono così alle incette e razzìe tra quel che c’era a casa e gli zii ben forniti, e agli scambi con individui di età “finalmente” simili con “ finalmente” paralleli gusti e ancor più empatici desideri di ricerche ed esplorazioni verso il “ nuovo” (e quel che si prendeva, in un modo o nell’altro, in feste e localacci malfamati, si scambiava e contrapponeva – spesso sostituiva – con roba familiare, con acquisti anche incauti ed indebitanti, con eventuali sòle , riciclate e rinfrescate e ripitturate e dolosamente ripresentate o regalate). Tutto ciò per accumulare una sorta di costruzione mattoncino dopo mattoncino (vengono in mente appunto le assurde colonne di Lego multicolor) e che negli anni sarebbe stata mutilata da dolorose perdite, furti, sottrazioni indebite,  lasciti per ex convivenze, divisioni fratricide e lotte intestine, e poi ri-innestata da ritrovamenti fortunosi, di una specie di collezione schizofrenica dove molto vinile acquisito proprio nell’epoca adolescenza o poco più, dovette far un po’ di posto alle progressive novità di audiocassette e ancor più in là dai cd sempre più facilmente acquistabili pure senza pellegrinaggi o furti con destrezza – altrimenti detti “ espropri proletari” o “ prestiti a lungo termine”- compiuti a casa genitoriale – però poi quelli si sono armati fino ai denti con filo spinato e mitragliatrici e radar satellitare e hanno permesso sempre meno prelievi – o dai sempre più anziani Parenti Compiacenti.

Risultato è il saltabeccare e risistemare la collezione decimata, puntellandola e affrescandola, in questo nuovo millennio, con ri-acquisti (con lentezza: è finita l’epoca dello Sgocciolamento di Cartamoneta da nonne e zie) di roba che si aveva e che si è persa chissà come, specie per i vinili (e fortuna che l’usato prospera e fertilizza e si prende i suoi bravi spazi ). E ciò sebbene faccia da un lato imbestialire per la coscienza delle Sensibili Perdite, poi dall’altro stimola e fa sentire di nuovo in fase “affamata” di acquisizione, di riapproprio, di ri-ascolto di suoni, e rinnovare il tatto digitale (nel senso di polpastrello  delicatamente sfiorante) sulla circonferenza perfetta del disco, sul suo odore, su quelle copertine teneramente mai del tutto intonse, e su tutta la sacrale Cerimonia del Disco. E ti fa ripiombare nel Rutilante Mondo della Ricerca, nello Scartabellare, della Forcella Magica da Rabdomante, la musica su disco (quanto diversa da quella sciorinata dalle facili ma molto meno poetiche teNNologie ) che è vera e propria acqua nel deserto, oasi e non miraggio ladro (cit.). E riavere, anche in tempi recentissimi, 45 giri presi anche 30 o 25 anni fa con pochi spiccioli assemblati a 50 lire per volta, riaverli tra le mani (complici i magici scatoloni dell’Usato o la favolosa possibilità dell’acquisto on line anche da gente lontanissima che per motivi incomprensibili ma convenienti SE NE PRIVA) è esperienza che rinnova tutto il piacere di allora, che resterà sempre un piacere inesauribile (e glisso sugli scheletri nell’armadio, che però si conservano tutti gelosamente, anche perché sono i Difetti che ci caratterizzano, e le sciocchezze commesse, e giammai i Pregi, quelli vanno a finire e si nebulizzano come starnuti). (Dinahrose)

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