FREE FALL JAZZ

Enrico Fazio, contrabbassista e compositori, ha pubblicato con ‘Shibui’ uno dei dischi più interessanti e riusciti del 2013. Dopo la recensione abbiamo setacciato i mari di Facebook per scovare il musicistia piemontese, che ha risposto di buon grado alla nostra sequela di domande, passando dalla musica all’insegnamento e altro ancora. La speranza è che, dopo aver letto l’intervista, vi interessiate a ‘Shibui’; l’attesa per il prossimo album, nel frattempo, cresce.

Come mai la tua formazione si chiama Critical Mass?
Massa Critica in fisica è il quantitativo minimo necessario ad ottenere un mutamento qualitativo: nel mio caso, con Critical Mass c’è il tentativo di rendere un suono e una potenza orchestrale col minimo di strumentisti a disposizione. E’ un progetto in cui la scrittura ha una parte molto consistente accanto all’improvvisazione, ed il suono che ho cercato è molto denso e sfaccettato.

Quando hai cominciato a lavorare a ‘Shibui’?
‘Shibui’ fa parte di un numero consistente di composizioni, in generale scritte nell’ultimo decennio, con alcune rivisitazioni di brani scritti per i miei primi progetti, oltre trent’anni fa. Negli ultimi anni il mio lavoro si è concentrato soprattutto sulla scrittura (sono Capodipartimento e docente di Composizione jazz al Conservatorio di Alessandria), per cui i brani, pur nella loro diversità, sono molto omogenei. Inizialmente ho pensato di fare un uscita multipla di 2-3 cd, idea poi abbandonata per questioni organizzative e pratiche. Ho immaginato un gruppo ridotto rispetto ad un orchestra, ma che mi garantisse una resa musicale simile: ho quindi scelto dei musicisti che accanto alle grandi qualità di improvvisatori mi garantissero un’altissima qualità tecnica e una grande varietà timbrica (suonano tutti 4-5 strumenti). Ho mandato il materiale da studiare ai musicisti, e abbiamo poi registrato tutto praticamente il diretta senza prove preliminari. La registrazione è stata fatta nel mio studio, con mia moglie – che è un fisico acustico – come tecnico del suono.

Cosa ti ha portato ad utilizzare strumenti inconsueti come i clarinetti turchi?
Sono da sempre affascinato dal timbro degli strumenti e anche dall’elettronica (sebbene non sia un grande esperto), e cerco colori spesso poco utilizzati in ambito jazzistico. Nel corso degli anni ho utilizzato marimba, oboe, fagotto, strumenti ad arco, clarino contrabbasso, e molti altri strumenti inconsueti. Sono attratto dagli strumenti etnici, che non seguono la scala temperata: ho usato balafon e kalimba, e in ‘Shibui’ il clarinetto turco.

Come hai organizzato i vari brani? Nel senso, i vari spazi di composizione ed improvvisazione?
Quando ho iniziato ad occuparmi di composizione cercavo di aderire a dei modelli e a delle forme standard, con scarsi risultati. Quindi ho cominciato ad evitare di costringere il mio pensiero in forme prestabilite, lasciando che i pezzi si sviluppassero come un organismo vivente che cresce. Di conseguenza chi improvvisa nei miei progetti sa che dovrà uscire dagli schemi tradizionali e confrontarsi con situazioni inaspettate. In questo senso i due momenti della composizione e dell’improvvisazione sono entrambi fondamentali e si fondono: da una parte la scrittura mi serve per tracciare i percorsi che io suggerisco, per creare l’atmosfera che ho in mente, mentre l’improvvisazione è il momento che da vita ed energia alle cose scritte. Io do indicazioni precise per le improvvisazioni, ma poi lascio la massima libertà di scelta ai solisti su come interpretare la mia idea. Per questo alcuni dei musicisti che suonano con me attualmente hanno fatto parte dei miei primi progetti degli anni ’80, conoscono bene il mio mondo musicale e mi aiutano ad inserire i nuovi arrivati nel giusto mood.

Molto interessante, nel disco, la ricchezza del registro grave. Il tuo contrabbasso interagisce con clarone, tuba, sax baritono. Cosa ti ha spinto a rinforzare questa particolare area della band?
Strumentalmente io nasco come contrabbassista, quindi per me è naturale avere un’attenzione particolare al registro grave. Però come dicevo, in questo caso le scelte sono motivate principalmente dall’idea di un suono orchestrale concentrato in una formazione ridotta. In realtà ho cercato di coprire tutto lo spettro sonoro, e per questo ho scelto musicisti polistrumentisti: Adalberto Ferrari suona tutti i sax e i clarini, dal contrabbasso al clarinetto; Gianpiero Malfatto suona tuba, euphonium, trombone, tromba bassa e flauto; Gianni Virone tutti i sax ed il flauto; Luca Campioni il violino, le percussioni, marimba e vibrafono; Alberto Mandarini la tromba, il flicorno e la pocket trumpet; Aroni Vigone il sax soprano e l’alto, Fiorenzo Sordini batteria e varie percussioni. Se penso ad uno strumento che ha caratterizzato la mia musica negli ultimi tre lavori, penserei al violino: è stata un pò una scommessa capire come inserire uno strumento ad arco accanto ad una sezione compatta di cinque fiati…

Come mai hai deciso di ospitare tuo figlio di quattro anni?
Al tempo mio figlio aveva un gioco per bimbi in cui poteva registrare suoni e rumori e riascoltarli; un giorno ho sentito un motivetto che aveva improvvisato; ho salvato la registrazione che è poi diventata il motivo conduttore in 10/4 del brano ‘Tuttecose’. Per me è stato un modo di fissare il ricordo di un momento dell’infanzia di mio figlio, che quando sarà grande potrà risentire la sua voce di bimbo.

Oltre a influenze jazz, se ne avvertono altre: Zappa, ma certo prog rock anni ’70 (Henry Cow, King Crimson, Colosseum). Posso sbagliarmi, ma mi sembra che in questo tu sia in buona compagnia. Come mai, secondo te, il prog rock ha lasciato un’impronta così profonda nella musica italiana?
Io sono cresciuto con Zappa ed i gruppi rock dei primi anni ’70 (oltre ai citati, direi Van der Graaf, East of Eden, Gentle Giant, Jethro Tull e molti altri), e questi ascolti hanno certamente segnato la mia esperienza musicale. Molti musicisti della mia generazione, e non solo italiani, sono cresciuti con questi gruppi e solo successivamente si sono avvicinati al jazz. Questo fattore – unito al fatto che quella generazione del rock è rimasta ineguagliata come fantasia e progettualità – è la cosa che ha decretato la fortuna del prog rock ancora oggi. Io poi ho avuto la fortuna di lavorare a lungo con musicisti inglesi di jazz provenienti da quell’area come Elton Dean (Soft Machine), Keith Tippett (Centipede), Julie Tippetts, Harry Beckett, Jim Dvorak ecc.

Porterai Critical Mass in giro? Come mai musicisti come te non si sentono molto in giro per concerti o festival?
Devo fare una premessa per spiegare la mia situazione… Ho cominciato a suonare professionalmente in giro per il mondo a 17 anni e l’ho fatto per 35 anni; poi nel 2007 sono successi alcuni fatti negativi e positivi che mi hanno fatto cambiare le scelte lavorative. Sono mancati due amici e maestri di vaglia con cui avevo avviato progetti importanti (Elton Dean, con cui dovevo fare il terzo disco dell’Anglo-Italian 4tet, e Steve Lacy, con cui c’era in progetto un doppio disco con l’Art Studio, il gruppo storico con cui ho iniziato); contemporaneamente ho concluso la mia esperienza col quartetto di Carlo Actis Dato. Ma, soprattutto, è nato mio figlio Simone, l’esperienza più bella della mia vita. Quindi ho colto l’occasione per prendermi un periodo di pausa e stare accanto a mio figlio, periodo inizialmente pensato di un anno, che poi si è protratto fino ad oggi. Venendo finalmente alle tue domande, non suono in giro perché dal 2007 ho interrotto la mia attività concertistica, concentrandomi sulla composizione, sul lavoro in Conservatorio e sui lavori in studio di registrazione. Di conseguenza presenterò Critical Mass in concerto solo se capiteranno occasioni veramente importanti.

Cosa ti piace nel jazz di oggi?
Cerco di ascoltare di tutto, non solo jazz. Sono molto interessato al jazz orchestrale (p.es. Darcy James Argues, Joel Harrison, Max von Mosch Orchestra, Andromeda Mega Express, Matthew Herbert, Django Bates ecc) e in generale al jazz che esce dai canoni mainstream. Il jazz è una musica viva perché da sempre interagisce in tempo reale con la società; oggi viviamo in un epoca di contaminazioni e questa caratteristica la ritrovo nella capacità di molti musicisti – spesso europei – di confrontarsi con altri mondi musicali (musica etnica, rock, classica, elettronica ecc), e altri modi artistici (danza, poesia, pittura ecc).

Hai suonato all’estero: come ti sei trovato?
Mi riallaccio a quanto dicevo prima: ho suonato lungamente con gruppi a mio nome e con alcune formazioni stabili (Art Studio, Anglo-Italian 4tet, Actis Dato 4tet, Minafra Sud Ensemble ecc). Con questi gruppi ho partecipato ai maggiori festival di area moderna in tutto il mondo (in tutta Europa, in Africa, in Usa e Canada, in Sud America, in Giappone). Questo mi ha permesso di vedere posti nuovi e conoscere abitudini, usi diversi e ascoltare musica di altre tradizioni; questa esperienza è una delle cose che un pò mi manca nel mio ritiro volontario dalla scena. Da un punto di vista musicale devo dire che i musicisti italiani sono sempre apprezzati e stimati all’estero, e nella mia esperienza sul campo è sempre stato più facile suonare nei festival all’estero che in Italia.

Come sono i tuoi allievi ai corsi di jazz?
Ci sono molti allievi (il Dipartimento di Jazz di Alessandria è quello che ha più iscritti), e ovviamente non tutti hanno le stesse doti o le stesse aspirazionifrequentando i corsi. In generale devo dire che ho un ottimo rapporto umano con i ragazzi, ed in alcuni casi riconosco dei veri talenti in formazione. Da parte mia il confronto continuo con gli allievi, specie con i miei di composizione, è di stimolo continuo anche per la mia attività e mi permette di essere aggiornato e di mantenere giovane il mio cervello.

Come va la didattica jazzistica italiana, o se non altro nel tuo Conservatorio?
La didattica del jazz in Italia è piuttosto giovane, e l’entrata nei conservatori è piuttosto recente. Quindi non possiamo competere con l’organizzazione delle scuole americane, dove il jazz ha il peso che in Italia ha avuto la musica lirica; però vedo che alla mancanza di mezzi e di organizzazione si cerca di sopperire con molta passione ed impegno, e anche in ambito accademico la diffidenza dei classici comincia a lasciare il passo alla curiosità ed in qualche caso all’apprezzamento. Nel caso di Alessandria abbiamo una Direzione molto aperta e collaborativa, che ci permette di affrontare i tanti problemi che il ministero non riesce a risolvere. Attualmente la situazione in tutti i conservatori è piuttosto caotica, perché si è tentato giustamente di risolvere il problema degli insegnanti precari facendo una graduatoria nazionale, ma si sono sbagliati i tempi per cui a corsi iniziati mancano ancora moltissimi docenti.

Cosa lasceresti com’è e cosa vorresti cambiare?
In Italia attualmente ci sono due livelli universitari di musica, un triennio di I° livello ed un biennio di specializzazione. Alcuni musicisti di jazz , tra cui Paolo Damiani, vorrebbero istituire pochi Superconservatori (un po’ sul modello francese) che seguano i livelli di specializzazione con insegnanti di gran nome, lasciando il primo livello agli altri conservatori. Io non sono convinto che l’equazione grande solista=buon insegnante funzioni; penso anzi che sia necessario formare una generazione di docenti con una grossa esperienza didattica e che sappiano lavorare in gruppo, mentre le star spesso sono persone molto individualiste che non garantiscono una presenza regolare in conservatorio per gli impegni artistici. Questo sto cercando di fare ad Alessandria, creare un gruppo coeso e collaborativo pur nella differenza di impostazione stilistica e di esperienze musicali. Cosa vorrei cambiare? Il conservatorio, come tutta la scuola ha bisogno di stabilità degli organici e di investimenti sulle strutture, sui testi, sugli strumenti, sui supporti, e ciò si verificheràsolo nel momento in cui dall’alto si capirà che i soldi spesi in cultura sono investimenti sul nostro futuro.

Prossime mosse?
Sto finendo di preparare il materiale per il nuovo disco di Critical Mass, che dovrebbe uscire l’anno prossimo sempre per etichetta inglese LeoRec. Nel frattempo ho realizzato altri progetti più centrati sull’improvvisazione che sulla scrittura: una serie di duetti con dieci strumentisti ispirato ad un lavoro teatrale di Arthur Schnitzler, in cui curo l’impostazione ma suono poco; un duo col chitarrista Claudio Lodati; una serie di improvvisazioni libere col clarinettista Giancarlo Locatelli; un progetto di sonorizzazione di poesie di mia moglie col trombonista Gianpiero Malfatto.

(Intervista raccolta da Negrodeath)

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