Il giudizio critico su Chick Corea è stato per decenni piuttosto ondivago, un po’ per pregiudizio ideologico, in altri casi per suoi oggettivi demeriti. Il personaggio, oltre il musicista, ha sicuramente manifestato nel corso della sua lunga carriera, tratti di eclettismo un po’ guascone e certamente qualche periodica furbesca scivolata nel kitsch, che forse ha avuto più a che vedere con motivazioni legate al profitto che all’arte musicale. Tuttavia, se oggi si dà uno sguardo più distaccato alla sua imponente discografia e alla sua opera compositiva, ci si rende conto che Corea è, assieme ai sostanzialmente coevi Mc Coy Tyner, Herbie Hancock e Keith Jarrett, uno dei pilastri su cui si reggono le linee guida del pianismo jazz contemporaneo. Un gruppo cioè di attuali settantenni, ai quali si è ispirata e ancora si ispira la maggioranza dei pianisti jazz in attività. Quel che appare rispetto agli altri, è che Corea stia decisamente invecchiando bene, producendo negli ultimi anni diversi lavori discografici di un certo livello musicale ed artistico. Questo recente doppio CD della Concord registrato in esibizione concertistica in perfetta solitudine, sembra confermare la tesi pienamente. In pratica si tratta di una sorta di concerto summa della sua arte compositiva ed interpretativa, elaborata nei decenni addietro e presentata al pubblico con grande senso divulgativo, buona dose di ironia, come suo costume, ma anche dimostrando ampia e profonda cultura musicale e grande bravura, una volta appoggiate le mani alla tastiera. In un paio di ore di concerto Corea ripercorre con ispirazione e creatività, dimostrando intatte le proprie peculiari doti stilistiche (tocco asciutto, inconfondibile e grandissimo senso del ritmo), i cardini della sua opera, con la riproposizione di alcuni dei suoi Children’s Songs, divenuti ormai dei classici (nel vero senso del termine, visto che alcuni di essi sono stati interpretati anche nel concertismo accademico) e disegnando in musica alcuni intelligenti ritratti dei suoi autori preferiti, provenienti dall’ambito accademico (Scriabin, Bartok), dal flamenco (De Lucia), da quello puramente jazzistico (Monk, Powell e Bill Evans) e da quello, per naturale estensione, della Black Music (Stevie Wonder). Infine, raccolti in una sorta di suite finale, alcuni ritratti di luoghi evidentemente a lui cari (Cracovia, Casablanca, Easton nel Maryland etc,).
In linea di massima, molto del materiale presente nell’incisione era già stato presentato sia a livello discografico che concertistico anni addietro, ma raccolto nella forma di un unico concerto acquisisce la veste di un lavoro organico.
I ritratti più riusciti, a mio modesto avviso, sono quelli di Bud Powell e Monk (di cui si può ben dire essere uno dei suoi più originali interpreti pianistici) e molto raffinata mi è parsa la rilettura di “Pastime Paradise” di Stevie Wonder, autore che non finiremo mai di lodare e che a distanza di decenni si sta imponendo come uno dei compositori afro-americani più frequentati dai jazzisti odierni. Tutto il concerto, nonostante la lunghezza si fa ascoltare con grande piacere, regalandoci momenti di grande musica.
(Riccardo Facchi)
[...] Per l’ascolto odierno vi propongo perciò questa bella versione di Pastime Paradise di Chick Corea in piano solo che ho rintracciato in rete, in un concerto tenuto a Lisbona lo scorso anno, ricordando che ne esiste una molto bella anche su disco, nel suo recente Solo PIano Portraits. [...]