Ricordo quando ho letto ‘I miei luoghi oscuri’ di James Ellroy, corposa cronistoria della partecipazione dell’autore a nuove indagini private circa l’omicidio di sua madre, avvenuto oltre trent’anni prima. Pur conscio di trovarmi di fronte a un lavoro di non fiction, pervase comunque tanta delusione nel realizzare che al termine di oltre 400 pagine (perdonate lo spoiler) il mistero restasse bello che insoluto e per di più doversi sorbire un terrificante pistolotto parapsicologico dell’autore (il danno, la beffa, ecc.) su come la tragedia avesse contribuito a farne un giallista e come le indagini l’avessero aiutato a rinsaldare un rapporto “postumo” con la defunta genitrice. Allora me ne lavo le mani e lo dico subito: alla fine della storia che stiamo per raccontare (perdonate ancora lo spoiler) le domande saranno tante e le risposte pochine (nessuna?). Cionondimeno è storia che merita di essere ripescata dall’oblio: ha lasciato in eredità un disco di ottima musica, ed è motivo più che sufficiente a giustificare il tutto.
In realtà già il disco in sé sarebbe un piccolo mistero, essendo negli anni stato pubblicato sotto almeno tre differenti titoli, per giunta accreditato a musicisti diversi: due volte a Freddie Hubbard (‘Groovy’, ‘Minor Mishap’), una invece a Duke Pearson (‘Dedication’). La trama s’infittisce: sia l’uno che l’altro, per quanto prominenti, sarebbero solo dei sidemen nel sestetto che il 2 agosto del 1961 si ritrova a New York per incidere l’album. Il leader sarebbe in realtà il trombonista, tale Willie Wilson, e la session avrebbe dovuto foraggiare il suo imminente debutto per la Jazzline. Tutti questi condizionali diventano d’obbligo nel momento in cui si apprende che le cose sono andate in maniera ben diversa: Wilson scompare prematuramente nel 1963, quando il disco non è ancora uscito. Perché sia nel frattempo rimasto inedito non è dato sapere.
La prima a rispolverare quelle registrazioni sarà, alla fine dei sixties, la Fontana, che, ingolosita dalla crescente popolarità di Hubbard, darà alle stampe il citato ‘Groovy’. Il disco è appuntamento imperdibile per chi si nutre di hard bop e affini, e prefigura a più riprese lo stile che nel corso degli anni ’60 renderà uniche e riconoscibili molte delle uscite di casa Blue Note, un linguaggio che d’altronde proprio lo stesso Duke Pearson (pianista ma anche produttore) contribuirà in maniera decisiva a cristallizzare. Oltre alla tromba di Hubbard, il sestetto si completa proprio con un manipolo di fedelissimi di Pearson: la sezione ritmica che lo accompagna nei locali newyorchesi in quel periodo, Thomas Howard (basso) e Lex Humphries (batteria), e Pepper Adams al baritono. E poi c’è Willie Wilson. Il suo trombone spesso domina gli arrangiamenti, impressionando al contempo per urgenza, melodia e soprattutto personalità: a riprova di quest’ultima bastino gli entusiasmanti botta e risposta con degli Hubbard e Adams ancor giovani (specie il primo) ma già scafati. Le note di copertina svelano poi che il programma offre anche un suo originale (dedicato, pare, alla moglie): ‘Blues For Alvina’ tradisce tracce ellingtoniane, aggiornate però a quel che accade nel jazz dei primi ’60 (o almeno in parte di esso, visto che altrove in contemporanea ci si inizia a spingere anche in direzioni più avanguardistiche, sebbene in questo caso specifico non ci riguardino).
Chi sia stato Wilson prima e dopo quel 2 agosto 1961 resta però quanto di più incerto si possa immaginare, anche perché con un nome così comune le omonimie si sprecano. Alcune voci lo presentano come amico d’infanzia di Duke Pearson, cosa tutto sommato plausibile, e gli attribuiscono brevi permanenze nella big band di Gillespie e nel Jazztet di Benny Golsom, in entrambi i casi senza mai incidere alcunché. Le note di copertina (che non ne presentano immagini, facendo anche del suo aspetto fisico un’incognita) tuttavia segnalano una possibile sessione di registrazione (a metà degli anni ’50) per la Chess Records, nell’orchestra di Buddy Griffin, specificando però come la presenza del trombonista sia soltanto “probabile” e nient’affatto sicura. Nulla si conosce poi circa le cause della sua morte, eccetto che questa sia avvenuta in giovane età: sempre nelle liner notes si ipotizza che al momento delle registrazioni avesse meno di 30 anni. Una ricerca un po’ più dettagliata svela addirittura la fotografia di un Willie Wilson trombonista negli anni ’50 per una banda della marina americana, ma l’epidermide candida del soggetto in questione invita a pensare all’ennesimo scambio di persona (sebbene in effetti un bianco, il citato Pepper Adams, facesse parte del sestetto che ha inciso ‘Groovy’).
Negli anni nessuno sembra averne mai più parlato: rara eccezione il collega Wayne Andre, a cui un sito internet attribuisce il testuale elogio “Willie’s playing was terrific”. La sola e unica testimonianza registrata di Willie Wilson restano dunque i 67 minuti (bonus track e alternate take incluse) di ‘Groovy’, più che sufficienti a ritagliargli un posticino tra i segreti meglio custoditi del jazz dei ‘60. Tanti restano i quesiti insoluti: innanzitutto perché la Jazzline non abbia più stampato il disco quando Wilson era ancora in vita, ma anche perché nessuno negli anni successivi abbia mai chiesto delucidazioni a chi quel giorno di 50 anni fa suonò insieme a lui (noi abbiamo provato a chiedere a Duane Hubbard, figlio di Freddie, ma anch’egli brancola nel buio). Oggi sono tutti morti, a parte forse il misterioso Thomas Howard, comunque sparito anch’egli nell’oblio. Ne ‘I miei luoghi oscuri’ le indagini di James Ellroy si rivelano inconcludenti proprio perché la maggioranza delle persone coinvolte è deceduta o irreperibile. Noi però almeno vi risparmiamo il pistolotto parapsicologico. (Nico Toscani)