L’epopea della Blue Note è stata ampiamente sviscerata da un ottimo libro di Richard Cook di cui abbiamo già parlato su queste pagine. Storia di questi giorni è invece l’uscita di ‘Blue Note: Uncompromising Expression’, mastodontico tomo di 400 pagine che si prefigge di analizzare uno degli aspetti più importanti tra quelli che hanno contribuito a trasformare in leggenda l’etichetta fondata da Alfred Lion: le grafiche delle sue copertine. L’autore è lo scozzese Richard Havers, che in passato ha già raccontato le gesta di un’altra etichetta storica del jazz americano, la Verve, nel volume ‘Verve: The Sound Of America’. Il libro esce, al momento solo in inglese, per Thames and Hudson e dalle nostre parti è disponibile (seppur costosetto) attraverso il circuito Amazon. In potenza sembra un ottimo complemento al libro di Cook, ma sarà nostra premura dirvi di più se/quando ce l’avremo tra le mani. Intanto, ci sembra buona idea proporvi la traduzione in italiano di un articolo in tema apparso qualche giorno fa in Inghilterra sul Telegraph (autore Martin Gayford).
È risaputo che il regime nazista abbia tacciato l’arte modernista di “degenerazione”. Un po’ meno noto che il Terzo Reich abbia messo al bando anche della “entartete musik”, “musica degenerata”. In pratica, il jazz. E dunque ha senso che una delle più importanti etichette discografiche americane di jazz sia stata fondata proprio da uomini in fuga dalla Germania di Hitler.
Se non nello spirito, come alcuni sostengono, la Blue Note sopravvive ancora oggi almeno nel nome. Questo corposo volume aiuta a spiegare l’aura mistica che continua a circondare la label, sebbene in questo caso le immagini siano più importanti del testo. Uno dei punti cruciali dei dischi Blue Note infatti è che erano unici e bellissimi a vedersi. Le copertine erano vere e proprie opere d’arte. Univano lo stile tipografico derivato dalla Bauhaus – istituto di design sorto nella repubblica di Weimar, in Germania – con una brillante fotografia, spesso sobrie immagini in bianco e nero che ricordavano l’approccio di maestri della fotocamera come Cartier–Bresson o Robert Frank. Un tipo di design che si riallacciava a un’attitudine più comune in Europa che in America: che il jazz non fosse una mera forma di intrattenimento, ma qualcosa da prendere con la stessa serietà con cui ci si può approcciare a Beethoven o a Debussy. Era anch’esso arte.
Alfred Lion, il fondatore della Blue Note, veniva da Berlino (suo padre era un architetto) ed aveva un retaggio culturale ebreo. Da adolescente ascoltò una registrazione di Sam Wooding & His Orchestra, tra le prime band di jazz a suonare in Europa. Nel 1925 registrarono a Berlino un pezzo chiamato ‘Shangai Shuffle’; molti anni dopo, Lion ricorderà l’effetto che quelle note ebbero su di lui: “Catturarono immediatamente il mio interesse. ‘Sentivo’ la musica, senza sapere effettivamente cosa mi stesse facendo provare”.
Nel 1928, all’età di 20 anni, Lion si recò negli Stati Uniti. Per dormire si arrangiò a Central Park, poi trovò un lavoro presso le banchine portuali che gli permise di prendere in affitto una serie di stanze dalle quali veniva sistematicamente sfrattato per aver fatto suonare il suo giradischi a volumi molesti. Tornato brevemente in Germania, tentò dapprima la fortuna in Sudamerica, per poi tornare nuovamente a New York. A Gennaio del 1939 aveva ormai messo da parte abbastanza denaro per finanziare la sua prima sessione di registrazione: la Blue Note era nata.
Le sue scelte per i musicisti impiegati quel giorno sono interessanti: Albert Ammond e Meade “Lux” Lewis, due esponenti del più martellante piano blues, il cosiddetto boogie–woogie. Si tratta della stessa formula che un paio d’anni dopo catturerà le orecchie di un altro modernista scappato dall’Europa, il pittore Piet Mondrian, maestro dell’astrattismo geometrico. I capolavori degli anni newyorkesi di Mondrian si chiameranno proprio Broadway Boogie Woogie e Victory Boogie Woogie.
I generi che Lion registrava cambiarono nel corso degli anni: dal più viscerale blues e lo stile New Orleans degli anni ’40, passando per il bebop fino alla free–form degli anni ’60. In un certo senso però i suoi gusti restarono gli stessi: il jazz gli piaceva un po’ grezzo e con una ritmica potente. Alla Blue Note non c’era grande interesse né per pianisti romantici e dall’approccio lirico come Bill Evans, Hank Jones e Tommy Flanagan, né per la zuccherosa musica “cool”.
L’etichetta era dunque l’espressione di un gusto ben preciso: quello di Lion. Ascoltando certi musicisti per la prima volta – il fortemente percussivo Thelonious Monk sarebbe un esempio perfetto – andava letteralmente “fuori di testa” e si sentiva in dovere di registrare tutta la loro musica, incurante delle eventuali vendite. Ovviamente la Blue Note metteva a segno qualche hit di tanto in tanto, altrimenti Lion sarebbe andato subito in bancarotta. Ma era sempre chiaro nel rimarcare che l’obiettivo primario della compagnia fosse la qualità, non i soldi. Era disposto persino ad affittare a sue spese le sale per le prove dei musicisti, azione che la concorrenza giudicava solo un dispendioso lusso. Di conseguenza, per esempio, l’unico album che John Coltrane ha inciso per la Blue Note (‘Blue Train’) è il più equilibrato e perfetto della sua prima produzione.
Francis Wolff, amico di infanzia di Lion e suo partner di lungo termine negli affari della Blue Note, dalla Germania riuscì a scappare per un soffio nel 1939. “La Gestapo arrivò nel suo appartamento – ricorda Lion – Io stavo lavorando alacremente per riuscire a portarlo via”. Era Wolff a scattare quelle magnifiche fotografie. Durante gli anni d’oro della Blue Note – grossomodo dalla metà degli anni ’50 a quella dei ’60 – le copertine erano ideate da un giovane grafico di nome Reid Miles. Alle immagini di Wolff univa uno stile tipografico audace d’ispirazione Bauhaus, e i risultati spesso erano delle vere e proprie opere d’arte (tanto che persino i risultati del più famoso artista ad aver mai disegnato una copertina per la Blue Note, Andy Warhol, restano poca cosa in confronto).
Un attacco di cuore spinse Lion a vendere l’etichetta nel 1966. Wolff continuò a lavorarci fino alla sua morte, nel 1971, ma a quel punto i tratti distintivi dell’etichetta, sia musicali che visuali, si erano già per gran parte smarriti. Da allora, sia negli anni ’80 che ’90 numerose sono state le uscite eccellenti sotto il marchio Blue Note, come anche qualcuna un po’ meno memorabile, ma se l’etichetta va avanti ancora oggi è soprattutto per tributare la visione originale di Lion. Questo libro ne racconta la storia con piacevole entusiasmo, ma senza metterla troppo a fuoco. L’interesse converge soprattutto verso l’enorme mole di immagini di Wolff che vengono riprodotte, incluse molte outtake infine non usate per le copertine definitive. Coloro in cerca di un approfondimento critico sui risultati musicali di Lion e Wolff farebbero meglio a recuperare una copia di Blue Note Records: La biografia, scritto dal compianto Richard Cook.