FREE FALL JAZZ

Quello dei cantanti jazz (o pseudo tali) è un filone che le case discografiche in questi tempi di magra cercano di sfruttare al meglio con prodotti musicali che hanno il pregio, dal loro punto di vista, di poter abbracciare un pubblico molto più ampio, non forzatamente specifico del jazz, sfruttando una trasversalità di genere che oggi va molto di moda presso un pubblico musicalmente e vocalmente non troppo colto e che ama avere in sottofondo per le proprie serate con gli amici della buona musica che possa essere apprezzata da tutti e dia un tono quell’attimo meno “rustico” e scontato del mettere l’ultimo successo da hit parade. Capisco, inoltre, che siamo in tempi di crisi e che le case discografiche sopravvissute alla falcidia dei download di rete abbiano l’obbligo di pubblicizzare i prodotti musicali messi in circolazione e di spingere adeguatamente i loro musicisti, ma trovo il riscontro quasi unanime di cui gode questo corpulento e giovane vocalist afro-americano davvero eccessivo e poco giustificato.

Leggo in rete confronti con grandi cantanti del passato: da Nat King Cole a Stevie Wonder, ma non scomoderei certi paragoni davvero troppo impegnativi per un semplice buon cantante e un buon prodotto di intrattenimento musicale e nulla più. Porter in questo lavoro si rivela un discreto compositore, non particolarmente originale a dire il vero, che si riallaccia chiaramente alla grande tradizione del Soul afro-americano, ma se si conoscessero meglio la storia e i protagonisti di questa musica e i relativi grandi cantanti che ha prodotto, ci si renderebbe conto che questo genere di canto è abbastanza nella media (nel senso proprio di mediocrità) e non particolarmente significativo in tale ambito, soprattutto sul piano interpretativo e dell’energia comunicativa. Dai grandi talenti della tradizione canora del Soul e del R&B non mi pare distinguersi, se non in peggio. Confrontando la sua voce e le sue interpretazioni con quelle di Ray Charles, Stevie Wonder (l’assoluto top del genere), Michael Jackson, George Benson, Marvin Gaye, Bill Withers, Bobby Womack, Lionel Richie, James Brown, Curtis Mayfield, Isaac Hayes, Smokey Robinson, Donny Hathaway, Luther Vandross (questo sì uno strepitoso cantante sia sul piano della tecnica vocale che dell’interpretazione), solo per citarne alcuni alla rinfusa e solo tra gli uomini, esse non sembrano spiccare, né per originalità compositiva né per spessore interpretativo, né per timbro vocale.

Mi rendo conto che questo severo giudizio non sia in linea con i premi e i riconoscimenti che Porter ha ricevuto in questo periodo, ne prendo atto, ma è un giudizio ponderato e, comunque, non mi pare  sia il caso di gridare al miracolo. Kurt Elling, solo per paragone con un suo competitor bianco di oggi nello stesso ambito espressivo, ha un timbro vocale molto più originale e inconfondibile, una estensione molto più ampia, una preparazione musicale più sviluppata e, soprattutto, un repertorio, anche in ambito jazzistico, più vasto e complesso di quello ristretto scelto da Porter. E diciamola tutta, l’interpretazione di un notissimo standard del jazz come “I Fall In Love Too Easily” che gode di prestigiose versioni è davvero debole, oltre che emblematica.

In sintesi, mi pare davvero eccessivo tutto questo chiasso per un disco ben costruito per vendere e ottenere consensi e premi ma che è sostanzialmente un’opera di stretto intrattenimento musicale, emotivamente non poi così coinvolgente come si dice e che certo non passerà alla storia del canto e men che meno della musica.
(Riccardo Facchi)

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