La formula del trio, con la sezione ritmica priva del sostegno del pianoforte, rappresenta per un sassofonista del jazz che si rispetti una prova ardua di maturità tecnico-musicale e una sorta di traguardo da raggiungere, che certo non possono essere alla portata di chiunque e ciò per svariate ragioni. Innanzitutto, per gli illustri precedenti che la discografia jazz presenta in opere capitali realizzate da giganti del sassofono del passato, come le storiche registrazioni live al Village Vanguard di New York del 1957, di Sonny Rollins e quelle registrate da Joe Henderson negli anni ’80, per Blue Note e Red Records, che per certi versi possono essere considerate pressoché definitive in tale ambito formale e una pietra di paragone tale da intimorire l’improvvisatore che non avesse sviluppato una solida personalità musicale. In aggiunta, esiste poi un serio problema da affrontare e cioè quello di saper gestire l’apparente libertà da certi vincoli armonico-strutturali, dovuta all’assenza di strumenti accordali, come il pianoforte o la chitarra (con il peso armonico traslato in pratica sulle spalle del basso), sia sul piano della coerente costruzione dei propri soli, che della conduzione generale della musica prodotta assieme gli altri componenti del trio. Infine, da ultimo, ma davvero non meno importante, anzi direi essenziale, il leader, ossia il sassofonista, deve mostrare nella sua capacità improvvisativa una sapienza ritmico-melodica superiore e quindi non comune.
Johsua Redman, figlio del grande Dewey scomparso pochi anni fa, e ormai protagonista da anni nella scena jazz newyorkese, possiede da tempo questi requisiti e li mostra tutti in questa eccellente esibizione live registrata in due sedi diverse, con diversi trii: quello con il batterista Gregory Hutchinson e il bassista Matt Penman al Jazz Standard di N.Y.C. e quello con il bassista Reuben Rogers al posto di Penman al Blues Alley in Washington, DC. Redman peraltro non è nuovo ad una tale esperienza, in quanto esistono già nella sua discografia recenti incisioni in trio in cui si cimenta in tale ambito. Nell’aprile 2007, infatti, Nonesuch aveva realizzato, “Back East”, il suo primo lavoro del genere, con tre diverse ritmiche (Larry Grenadier & Ali Jackson, Christian McBride & Brian Blade, Reuben Rogers & Eric Harland) e tre sassofonisti ospiti (Chris Cheek, Joe Lovano and Dewey Redman), mentre nel gennaio 2009, “Compass”, ne ha proseguito l’esperienza, includendo alcuni brani addirittura in doppio trio, costituito da due bassi e due batterie.
In un quadro di paragone con opere prodotte dai maggiori sassofonisti sulla scena contemporanea, il lavoro di Redman può essere rapportato a pagine come “Trio Fascination” di Joe Lovano e “Trio Jeepy”, “The Beautyful Ones Are Not Yet Born” o “Bloomington” di Branford Marsalis, con il quale condivide certo l’influenza imprescindibile di due maestri come Rollins (il tema di “Action Act” pare ricordare persino l’andamento iniziale della “Freedom Suite” e certo l’affrontare un cavallo di battaglia rollinsiano come “Mack The Knife” non lascia adito a molti dubbi in merito) e Coltrane, ma anche il riferimento ad un sassofonismo antecedente, ossia quello di un Ben Webster nelle ballads (eccellente e molto personale la rilettura di “Never let me go”, esposta con relax nel registro grave dello strumento, priva di svenevolezze e un finale in stop-time estremamente coinvolgente per il pubblico presente), di Gene Ammons, Illinois Jacquet, Jimmy Forrest e gli “honkers”, di David “Fathead” Newman, King Curtis, Stanley Turrentine e il folto gruppo dei sassofonisti Soul, per quanto concerne la tecnica di emissione del suono, la timbrica, l’uso dei glissati e dei sovvracuti nei brani più ritmati. Ma il suo approccio strumentale, decisamente di sintesi, in definitiva non si può identificare completamente in nessuno di loro, il che potrebbe anche essere sintomo di una propria raggiunta identità musicale ed artistica. Non dimentichiamo poi che il suo bacino di influenze va ben oltre l’ambito puramente jazzistico, invadendo il campo più ampio del R&B, del Soul, del Funk, del Country e del Pop (James Brown, Aretha Franklin, Temptations, Stevie Wonder, Earth, Wind and Fire, Joni Mitchell e Prince), e del Rock bianco (Beatles, Dylan, Led Zeppelin, Eric Clapton e i Police) cosa peraltro ben documentata scorrendo i titoli della sua discografia. E non a caso anche in questa esibizione Redman si esibisce, nel brano finale del disco, in una ritmicamente esuberante rilettura di “Ocean” dei Led Zeppelin, impregnandola di umori funky.
Non in tutti i brani Redman imbraccia il tenore. In “Soul Dance” e “Mantra#5” si esibisce al soprano, sempre ben sostenuto dalla precisa e efficace ritmica di Gregory Hutchinson alla batteria e dei due bassisti citati, alternati nelle due esibizioni, ma in tutti suona con grande fuoco, grande professionismo e, immaginiamo, grande presenza scenica.
Esibizioni di questo tipo (Redman si è esibito in marzo al Festival Jazz di Bergamo) oggi vengono per lo più bollate da certa nostra critica abbondantemente attempata, con aggettivi discutibili e anche abbastanza ingenerosi, che parlano di vuota “muscolarità” esecutiva e spettacolarità fine a se stessa, tipica dei jazzisti afroamericani agganciati ad un mainstream jazzistico giudicato pregiudizialmente come musicalmente ormai sterile. Evidentemente c’è oggi chi, forse invecchiato dentro e preso dalla noia del proprio vivere, preferisce sonorità sassofonistiche algide, atmosfere nordiche soporifere, insomma, un jazz (si fa per dire), di ghiaccio polare raffreddato a – 50 °C e spazi improvvisativi ritmicamente e jazzisticamente inconsistenti, pensando che questo sia il presente e il futuro delle musiche improvvisate, preferendole alla botta di vita di certo fuoco esecutivo. Chissà, forse si sentono solo più vicini all’oltretomba e vivono i loro anni della vecchiaia nel timore di un altro genere di fuoco, decisamente più infernale di quello esibito da Joshua Redman, ma, in definitiva, non è problema che ci riguardi.
(Riccardo Facchi)