FREE FALL JAZZ

Nicola Gaeta è l’autore di ‘BAM, il Jazz Oggi A New York’, un libro interessantissimo che si tuffa nell’attualità del jazz di New York (appunto) con un taglio incredibilmente vivido e avvincente. Un testo importante, che getta luce su una scena tanto fertile e ricca quanto criminalmente ignorata dalle nostre parti. Da queste considerazioni a contattare Gaeta per un’intervista il passo è stato breve, e il risultato lo potete leggere qui sotto!

Come ti è venuto in mente di scrivere “BAM”?
Sono un vecchio appassionato di musica nera, un universo che ha rappresentato per me molto, sin da piccolo. Ho un passato da DJ e nelle mie selezioni, sia in radio che in discoteca, ho sempre prediletto la black music in tutte le sue sfaccettature. Ai tempi della disco mettevo la musica di gente come B.T. Express, Willie Hutch, Marvin Gaye, tutto il Philly Sound, Temptations, ecc. Successivamente il reggae e l’hip-hop hanno letteralmente preso d’assalto la puntina del mio giradischi. Quando ho iniziato ad avvicinarmi al jazz i miei eroi si chiamavano John Coltrane, Miles Davis, Charlie Parker, Art Blakey, ma anche cosiddetti “minori” come Ike Quebec, Kenny Dorham, Bobby Hutcherson. Dopo aver scritto il mio primo libro, uscito sul mercato nel 2011 e intitolato “Una preghiera tra due bicchieri di gin”, una specie di indagine sul jazz in Italia attraverso interviste ad alcuni dei suoi protagonisti, ho pensato che mi sarebbe piaciuto scrivere qualcosa sul jazz newyokese, avendo seguito quella scena per molti anni durante la mia esperienza di giornalista musicale, pensando tra l’altro che se ne parlasse poco soprattutto da noi. L’acronimo BAM ha immediatamente attratto la mia attenzione per il suo appeal di contenitore in cui il jazz ha un ruolo fondamentale, mischiandosi però a tutto il resto del variegato mondo afro-americano. BAM è semplicemente un etichetta, non c’è niente di veramente nuovo, però l’impatto di attrazione che ha soprattutto sugli afroamericani più giovani mi ha fatto subito pensare che sarebbe stato molto opportuno occuparsene e in maniera approfondita. BAM però è soltanto una delle tante scene che affollano il mondo del jazz a New York e, nonostante il titolo, nel mio libro si parla anche di molto altro. In sintesi abbiamo deciso, insieme ai tipi della mia Casa Editrice, di usare come titolo ‘BAM, il jazz oggi a New York’, pensando che il suono di quella piccola parola avrebbe in qualche modo attirato l’attenzione di un generico acquirente appassionato di musica e, in particolare, di jazz. I libri quando si scrivono, bisogna poi porsi il problema di venderli, altrimenti tutto diventa masturbazione e narcisismo.

Come ti è venuto in mente di farlo in maniera così avventurosa (trasferta newyorkese etc etc)?
Quelle rare volte in cui decido di fare qualcosa è mia abitudine farla molto seriamente. Non c’è niente di particolarmente avventuroso: se si vuole scrivere un libro sul jazz a New York bisogna andare a New York così come se si vuole fare la recensione di un concerto bisogna andare a vederlo. Il giornalismo è questo. Non conosco una maniera diversa per farlo.

Leggendo il libro traspira l’aria viva della vita a NY e soprattutto della vita del mondo jazzistico di NY. E ci riesce benissimo. Come mai hai scelto questo stile, invece del classico stile giornalistico musicale “da jazz”?
Ti ringrazio per la domanda. E’ stata una scelta ben precisa perché l’intenzione era quella di rivolgersi non solo al jazz fan ma anche al lettore generico. L’idea è stata mia: prima di essere uno scrittore sono un vorace e onnivoro lettore e ho pensato di unire alle mie presunte competenze musicali un sunto delle mie principali influenze letterarie che vanno dal noir (ho divorato i libri di Ellroy, di Don Winslow, di Jean Claude Izzo, ecc.) agli scrittori della beat generation. Ho pensato che sarebbe stato interessante far confluire tra di loro questi mondi per sperimentare un linguaggio che nell’asfittico e ingessato mondo della critica musicale sarebbe stata una ventata di novità. Spero di esserci riuscito.

Quali aspetti della scena di NY ti hanno colpito, su tutti, e ti senti obbligato ed evidenziare?
Su tutti la professionalità, non solo ovviamente dei musicisti, ma di tutti gli addetti ai lavori, dai proprietari dei club ai presentatori delle serate. Ho fatto un piccolo stage di avviamento professionale nello show business.

Leggendo nomi come Orrin Evans, Stacy Dillard, Greg Osby, Walter Smith III, Ambrose Akinmusire, Gerald Clayton, Marcus Strickland, JD Allen, Jaleel Shaw e altri ancora mi sono sentito a casa: finalmente qualcuno che parla dell’attualità jazz che seguo pure io. E che in Italia sembra interessare a ben pochi! Come se il jazz contemporaneo dovesse rifiutare di essere jazz per essere accettabile. Come siamo arrivati ad una situazione del genere?
Per pura ignoranza. La gran parte dei nomi che hai citato sono sconosciuti qui da noi, non solo da parte del pubblico, ma anche da parte degli addetti ai lavori. Come si può pretendere quindi che si crei un interesse attorno a dei nomi che non si conoscono? Il nostro è un paese estremamente provinciale, lo è sempre stato sin dai tempi del beat. Siamo ancora il paese in cui ‘A Whiter Shade Of Pale’ dei Procol Harum è più famosa come ‘Senza Luce’ nella versione dei Dik Dik

Ci sono dei musicisti che avresti voluto intervistare?
Molti: Sonny Rollins, Nick Payton, JD Allen, Wynton Marsalis, John Zorn, Cyro Baptista, Harold Mabern, Russell Malone, Steve Turre e molti altri.

Che ne pensi di musicisti, da me molto amati e seguiti, come Jason Palmer, Christian Scott, Tia Fuller, Jason Moran, James Carter, Lafayette Gilchrist, Eric Reed, Etienne Charles?
Mi piacciono molto Jason Moran, Jason Palmer e James Carter. Provo una generica attrazione per gente come Lafayette Gilchrist, Etienne Charles e Tia Fuller. Eric Reed è un ottimo pianista ma troppo mainstream per i miei gusti. Penso che Christian Scott sia un abile venditore di sé stesso e un trombettista sopravalutato

Sul jazz in generale: molti si lamentano che “non c’è più niente di nuovo”. Esclusi quelli che si lamentano in generale e ascoltano solo i vecchi dischi, mi sembra che molti non vogliano fare la fatica di cercare. Abituati alla solita narrazione del jazz per fasi, ogni fase coi suoni rispettivi araldi, non riconoscono una fase (caratterizzata da un movimento che divide il pubblico in pro-contro) nè gli araldi… perché oggi non funziona più così, ci sono tante scene, tanti stimoli, tanta ottima musica, ma richiede uno sforzo attivo! Sei d’accordo?
Io penso che nella musica, e quindi nel jazz, in realtà non accada più niente di realmente nuovo. I grandi fenomeni collettivi, all’interno dei quali si sono evoluti e affermati i giganti che hanno fatto grande questa musica, sono finiti. La rivoluzione oggi, se c’è, è parcellare. Può essere un accordo, l’utilizzo di alcuni intervalli rispetto ad altri, un modo di porsi e comunque passa attraverso il riconoscimento di individualità ben precise. In più al contrario di quello che accadeva un tempo, oggi tutto si mischia: è sempre più frequente vedere un musicista free interagire con uno che suona bop o funk senza che questo rappresenti un problema. Anzi. In passato questo non accadeva. La vera novità oggi è questa, è sintetizzare tutto quello che è già stato detto per tirare fuori il proprio linguaggio che non può che essere un linguaggio di sintesi. Ma fatta questa doverosa premessa sono d’accordo con te, bisogna saper cercare, ovviamente sulla base di conoscenze sedimentate e ci sarà, come c’è, un sacco di bella musica da sentire.

Quanto dovrebbe imparare, il jazz nostrano, da quello newyorkese?
Qui è necessaria una precisazione: il termine “jazz nostrano” non esiste. Esiste il jazz e dei musicisti che lo suonano, a varie latitudini ormai e questo a New York si respira. Forte e chiaro. Se vuoi sapere da me quanto i musicisti italiani che suonano jazz dovrebbero imparare da quelli che suonano la stessa musica a New York io ti rispondo tutto. Fatte salve alcune eccezioni che guarda caso riguardano musicisti che hanno frequentato New York

Possibile che musicisti come JD Allen o Orrin Evans, con una copiosa discografia da leader, e non, alle spalle e partecipazioni a molti eventi importanti in tutto il mondo, qui da noi siano dei perfetti sconosciuti esclusi da qualsiasi festival?
E’ possibile se le cose si ignorano e soprattutto se i media non promuovono certe realtà. In un paese in cui il massimo dell’informazione radiofonica per quel che attiene al jazz è affidata a Nick The Nightfly il risultato non può essere che questo. E comunque non dobbiamo dimenticare che gli organizzatori dei festival, oggi più che mai, devono combattere con una crisi bestiale per cui è molto facile che non ci si avventuri in scelte che potrebbero ledere il risultato del botteghino. Molti di loro sono competenti – molti altri no – ma purtroppo la tendenza è quella di accontentare i gusti del pubblico il quale ultimo molto spesso condiziona il cartellone. Ovviamente non condivido nulla di tutto questo ma non vorrei essere nei panni di uno che organizza un festival con un budget risicato, molto spesso assistito da amministratori ottusi e totalmente privi di qualsiasi cognizione di quello che accade. E magari deve anche cercare di tirare fuori la propria sopravvivenza. Meglio starne alla larga.

Per l’ambiente nostrano, il jazz americano sarebbe ormai una robina folkloristica da guardare con un certo paternalismo, mentre il jazz meritevole di oggi sarebbe quello più lontano dalle vetuste concezioni black american: dai brodini nordici alla più concettosa avanguardia rumorista. Non è un controsenso?
Per molto tempo è passato il messaggio – non solo in Italia, in tutta Europa – che per chiamarlo jazz bisognasse farlo strano. E allora vai con l’improvvisazione radicale o con la ricerca di strane commistioni più o meno cupe. Non è assurdo che il jazz abbia dei connotati, qualsiasi essi siano, perché ripeto ognuno ha i suoi gusti e il suo modo di concepire l’estetica, è assurdo che ci sia mancanza di conoscenza. I musicisti che suonano allo Stone o allo Shapeshifter Lab di Brooklyn, che ti garantisco lo fanno veramente strano, non si sognerebbero mai di prendere le distanze o di non riconoscere il valore dei loro colleghi che suonano in maniera più tradizionale, per il semplice motivo che anche loro sono capaci di farlo. E viceversa nessuno di quelli dello Smalls o del Fat Cat (oggi esiste anche un club che si è aperto da poco e che si chiama Mezzrow) si permetterebbe di denigrare il lavoro sperimentale dell’avant-garde di Alphabet City.

E non ti pare che il jazz, per gran parte del pubblico italiano, sia più che altro un modo per ottenere patenti di distinzione socioculturale senza fatica?
Mi pare e come. Ai concerti vedo sempre più fighette ingioiellate con la borsetta di Prada e sempre meno intellettuali e appassionati. Vent’anni di berlusconismo hanno ammazzato la cultura e di conseguenza anche il jazz. Il problema è anche nelle scelte dei direttori artistici spesso condizionate, come dicevo prima, dal botteghino. Vogliamo parlare di Danilo Rea e Claudio Baglioni? Lasciamo perdere perché se no facciamo notte e io ho sonno e domattina mi devo svegliare presto.

(Intervista raccolta da Negrodeath)

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