FREE FALL JAZZ

Donald Edwards, batterista della Louisiana, ha pubblicato di recente uno dei dischi più riusciti e interessanti del 2014, all’insegna di un jazz mainstream modernissimo e vitale. Siamo riusciti a scambiare qualche parola col simpatico Donald grazie alla solita accoppiata Facebook e email, ed eccovi il resconto!

‘Evolution Of An Influenced Mind’ è il tuo primo album da leader su CrissCross. Puoi dirci qualcosa sulla sua nascita?
Sì, è il primo album da leader su CrissCross. Fondamentalmente, tutto l’album è una dedica al mio primo maestro, Alvin Baptiste. Inoltre avevo l’idea di scrivere un disco che riflettesse un po’ tutta la musica con cui sono cresciuto giù in Louisiana e quella che poi ho scoperto dopo il trasferimento a New York. Non sono musicista che ascolta solo jazz. Ascolto pure r&b, funk, soul, reggae, gospel, rock, musica classica: volevo che il mio disco riflettesse tutto ciò, portandolo però sotto l’ombrello della musica nera. Del jazz, se vuoi. Tutti questi generi hanno significato molto per l’evoluzione del mio orecchio, e fare il purista del jazz significherebbe ignorare tutto ciò che ho ascoltato prima di mettermi a suonarlo.

Il disco è un esempio brillante di jazz moderno, con tanti diversi groove, un fitto interplay fra i vari musicisti e un bel suono di gruppo che lascia comunque spazio al contributo dei singoli. Lo hai pianificato in questa maniera o lo è diventato via via?
Ci sono molti aspetti diversi in questo album e posso dire che sia venuto come lo avevo pensato. Di certo non volevo uno di quei lavori pieni di assolo di batteria. L’unica cosa che non sapevo, e non ho voluto sapere, era come i vari musicisti avrebbero affrontato le varie composizioni. Volevo che ciascuno fosse libero di dire la sua e a modo suo.

‘American Drum Call To Mama’, con batteria e coro gospel, mi ha fatto pensare a ‘It’s Time’ di Max Roach. E’ effettivamente un richiamo a quel disco o è solo la mia immaginazione?
Conosco bene quel disco, ma ‘American…’ non ne è stata influenzata, oppure sì e non me ne sono accorto. La tua frase mi conferma che ‘Evolution’ è un album legato alla tradizione che allo stesso tempo guarda avanti. ‘American…’ è nata riflettndo sull’uso della batteria in diverse culture africane. Molte volte servivano come strumento di comunicazione; in generale ad un ritmo principale se ne aggiungevano altri che da lì si evolvevano autonomamente. L’unica cosa simile a me nota era il coro della vecchia chiesa battista nera: le persone cantavano senza alcuno strumento e si connettevano istintivamente le une alle altre e ad una pulsazione condivisa. La batteria poi cambiò tutto. Solo il jazz, di tutte le musiche, mi permetteva di esprimere tutto questo in libertà. Volevo un assolo in quello spirito, e allo stesso tempo riconoscere da dove provenisse questa cultura. L’Africa. Io sono americano di discendenza africana. Questo dunque è un messaggio a Mamma (la Madrepatria), come un Nero Americano lo potrebbe mandare. Si ricollega anche alla mia evoluzione di batterista che ha cominciato in chiesa.

Vedo che la chitarra è sempre più usata nel jazz contemporaneo: forse perché molti musicisti giovani hanno ascoltato anche altri generi musicali dove è molto presente, dal rock in là?
Non posso certo parlare per tutti, ma la chitarra era ben presente in gran parte della musica che ho ascoltato fin da bambino, e c’era ancora prima nel jazz. Hai presente Charlie Christian? E’ strano, ma per molti è come se non fosse mai esistito. Personalmente amo la chitarra. Ho suonato con Mark Whitfield, Russell Malone, David Gilmore altri ancora. Dal punto di vista del compositore, ti permette di far sembrare il gruppo più grande di come sia in realtà e allo stesso tempo offre un ampio ventaglio di possibilità sonore.

Mi è piaciuta molto ‘Dock’s House’, mi ha fatto pensare sia a Monk che a Steve Coleman…
‘Dock’s House’ era la casa di mio padre, e ho sentito tanta bella musica là dentro, e in parte ne sono influenzato ancora oggi. Al tempo iniziai ad ascoltare molto reggae. Nello stesso periodo fui presentato al professor Alvin Baptiste. Più avanti, all’università, studiai con lui. Ascoltai la sua band e il batterista Herman Jackson (un batterista eccezionale e molto diverso da me) suonava questo groove con la grancassa sul 2 e sul 4. Mi fece pensare al reggae che ascoltavo qualche anno prima. E il pianista suonava accordi che avevo sentito su un cd hip-hop di Busta Rhymes. Sì, sarebbe stato bello e “più jazz” se avessi pensato a Monk e Coleman, ma come vedi non è questo il caso! Ma se la vuoi descrivere così, va benissimo!

Hai lavorato spesso con Orrin Evans, un musicista che ammiro molto. Cosa ne pensi del suo ultimo disco con la Captain Black Big Band? E come sono messe, in generale, le orchestre oggi?
Mi piace Orrin, è un grande amico e pure io lo ammiro. Mi piace tantissimo la CBBB, perché so che grazie a lui sarà sempre un’orchestra jazz – magari aperta ad altre influenze, ma jazz nell’essenza. Le orchestre jazz di oggi secondo me si evolvono poco, anche se ce ne sono di grandissime.

Negli anni sono emersi sempre più batteristi che sono pure compositori e leader. Come mai ci è voluto così tanto?
Credo che ora ci siano sempre più batteristi che hanno la preparazione completa da musicista. Forse dipende anche dal fatto che questa musica si insegna nelle scuole, e questo porta alla comprensione teorica di ritmo, armonia, melodia e relative notazioni.

Quali sono i colleghi che stimi di più?
Non sono così sicuro. Cerco sempre di ascoltare un sacco di artisti e di capire cosa fanno. Alcuni mi piacciono molto, altri per niente, ma meritano tutti quanti rispetto per quello che fanno.

Cosa pensi della questione del BAM (Black American Music) sollevata da Nicholas Payton?
Non è niente di nuovo, in realtà. Molti professori, specialmente afroamericani, mi hanno detto di stare attento alla parola “jazz”. Per loro ha sempre una qualità negativa e mi hanno suggerito di definirmi musicista, e non musicista jazz. Poi sì, è vero, molti hanno fatto un sacco di grandi cose per rendere più pulita la parola “jazz”. Però capisco chi vorrebbe farne a meno in favore di una definizione molto più rispettabile. Capisco pure chi ha dei problemi con “BAM”. Molte culture chiamano la loro musica come vogliono, ma questo non significa che gli altri ne siano banditi. Per alcuni poi “BAM” è troppo generico, ma lo è pure “jazz”, visto che spesso significa cose diverse per persone diverse.

Ripubblicherai i tuoi vecchi dischi, prima o poi?
Mi piacerebbe, ma al momento non so dirti nulla a riguardo.

Prossimi piani?
Ho registrato il disco del collettivo Opus 5 di cui faccio parte. E ho già scritto musica per il mio prossimo disco, ma da qui a quando lo registrerò è probabile che le cose siano cambiate.

Riuscirai a portare in giro il tuo gruppo?
Ci sto lavorando proprio in questi giorni.

(intervista raccolta da Negrodeath)

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