Ieri un comunicato della Motema, sua attuale casa discografica, annunciava che Geri Allen era gravemente malata – cosa del tutto inaspettata, visto che era passata pure di recente in Italia assieme ad Enrico Rava. Oggi arriva la peggiore delle notizie: la grande pianista, una delle migliori della sua generazione, è morta oggi di cancro. Non aggiungiamo altro, se non questo articolo su NPR.
Prendo atto che da Liquid Spirit del 2013, Gregory Porter, cantante e songwriter, ha ottenuto un enorme successo, vendendo oltre un milione di copie a livello globale, vincendo nel 2014 il Grammy nella categoria Best Jazz Vocal Album, ma l’ascolto di quest’ultimo suo lavoro, come quello di allora che avevo recensito un paio di anni fa, mi ha lasciato del tutto indifferente e forse meriterebbe le stesse parole. Probabilmente capirò poco di cantanti, può anche essere, ma francamente non comprendo tutto questo entusiasmo per un canto e una proposta che nella grande tradizione afro-americana del pop-soul (stento a considerarlo all’interno del vocal jazz, ma in fondo non è poi così importante) paiono essere del tutto ordinari. Mi domando seriamente cosa dovrei dire allora di giganti del genere come Ray Charles, Marvin Gaye, Stevie Wonder, Donny Hathaway, Luther Vandross e Michael Jackson, tanto per citare i più noti (ma potrei fare decine di altri nomi), ai quali, si dice, la voce baritonale di Porter (almeno in parte) si ispirerebbe. (Continua a leggere)
Musica colta o popolare? Musica d’arte o commerciale? Musica d’ascolto o da ballo? (Continua a leggere)
Se vi capita di avere a che fare con un interlocutore che si dichiara jazzista o un semplice appassionato del jazz, per verificare se lo è davvero, chiedetegli cosa è per lui il blues. (Continua a leggere)
Dispiace dover ripetere sempre le stesse cose, ma dispiace ancora di più notare come dagli Stati Uniti continuino ad uscire fior di giovani musicisti di talento, pressoché ignorati da una critica più propensa a celebrare il passato o in spasmodica attesa di un messia, possibilmente d’inaudita avanguardia. Chi ha pazienza e voglia di cercare, seguendo i musicisti stessi sui social network, non mancherà di imbattersi in sorprese gradite. Fra queste, come avrete già inteso, figura pure il trentenne George Burton, pianista newyorkese che debutta sulla Inner Circle Music di Greg Osby dopo una lunga gavetta e una serie articolata di esperienze, jazz e non solo. Come tanti suoi coetanei, Burton mette a frutto tutte le proprie esperienze in un affresco completo ed estremamente maturo, costruito attorno alla duttile sezione ritmica (completata dal bassista Noah Jackson e dal batterista Wayne Smith), una dozzina di grandi composizioni e una cast nutrito di ospiti. (Continua a leggere)