FREE FALL JAZZ

Archive for " febbraio, 2015 "

Per tutti gli appassionati, perlomeno quelli di vecchia data, questa pubblicazione in doppio CD di inediti “live” di Lennie Tristano, tra l’altro in un periodo suo assai poco documentato, si rivela già per essere come l’evento discografico jazz dell’ultimo periodo, assolutamente da non perdere. Si sa che il materiale di registrazioni e incisioni disponibili del grande maestro di Chicago è abbastanza scarso, per quanto nel corso dei decenni successivi alla sua scomparsa (datata 1978) la sua discografia si è rafforzata numericamente con diverso materiale pubblicato per lo più dalla Jazz Records. Tuttavia, la qualità di questa incisione della Uptown, è decisamente buona, se paragonata a molto dell’analogo materiale precedente, anche se, a dire il vero, il suono ricavato dal restauro digitale del piano di Tristano sembra divenuto un po’ metallico e timbricamente poco espressivo. (Continua a leggere)

16, 17 e 18 APRILE @Auditorum Showville

Via Giannini, 9
(ex traversa di via Conte Giusso)
Bari

Per tre giorni Bari diventerà la capitale di BAM -Black American Music-, con “BAMfestival”. Tra gli ospiti, alcuni degli artisti più importanti della scena newyorkese come Gary Bartz, Nicholas Payton,Johnny O’Neal, Saul Rubin Zebtet, Orrin Evans e Fabio Morgera. (Continua a leggere)

In questo periodo Antonio Sanchez è pure sulle bocche dei non-jazzofili per via della colonna sonora del magnifico ‘Birdman’. Noi cogliamo l’occasione per farvelo vedere e ascoltare fra le mura del Moody Jazz Cafè di Foggia, assieme a David Binney (sax), John Escreet (piano) e Orlando LeFleming (basso).


Eric Harland è uno dei migliori e più ricercati batteristi della sua generazione, e a ragione, vista la grande adattabilità e lo stile originalissimo e subito riconoscibile. Con ‘Vipassana’, Eric presenta al completo la band Voyager, già comparsa nell’ottimo esordio ‘Live By Night’, spingendo ancora oltre la sua personale visione di jazz come trampolino di lancio per l’esplorazione di altri orizzonti sonore, hip-hop e neo soul in particolare, ma non solo. Ogni brano presenta una cellula tematica ben caratterizzata e minimale, un mattoncino che poi viene utilizzato dalla band per dare vita a brani ritmati e avvincenti. Harland adotta groove potenti impegnandosi in progressive microvariazioni, quasi come un beatmaker hip-hop, il piano di Taylor Eigsti crea armonie estremamente ampie e risuonanti, il basso ancora il tutto con ostinati potenti, chitarra (Julian Lage) e sax (Walter Smith III) fluttuano sulla sezione ritmica tessendo linee ariose, ben connesse col tema e ricche di botta e risposta. (Continua a leggere)

Dopo i primi due entusiasmanti capitoli dell’opera ‘Coin Coin’, Matana Roberts decide di attuare un importante (e tutto sommato, imprevisto) cambio di rotta stilistico per la registrazione del terzo episodio della saga.

Fin dai primi secondi, l’aspetto più evidente nella musica di ‘River Run Thee’ (questo è il titolo scelto per il nuovo album) è infatti la lontananza dal linguaggio canonico del jazz, che nei due precedenti ed esaltanti lavori costituiva invece l’elemento fondante e principale da cui la Roberts ripartiva per l’elaborazione della sua poetica personale. Non vi sono più ensemble più o meno vasti a supportare la musicista: per tutta la durata del disco si ascoltano solo qualche field recording, la voce della Roberts e il suo sassofono, comunque sottoposto a un processo di metamorfosi e di snaturalizzazione che rende solo una minoranza dei suoi interventi riconducibili a un approccio classico allo strumento (il suo suono viene alimentato da mini synth, oppure acquista riverbero naturale grazie all’utilizzo del rivestimento rotto di un pianoforte, o ancora viene registrato piazzando i microfoni in particolari angoli della stanza per coglierne diverse sfumature). (Continua a leggere)

Tre giorni di incontri, eventi, concerti per “JAM – Jazz A Mira”, dal 12 al 15 marzo 2015. L’undicesima edizione dell’oramai attesa rassegna di jazz sulla Riviera del Brenta è stata confezionata pensando a un tema forte e controcorrente come quello del jazz italiano.
Gli appuntamenti di quest’anno saranno tutti diversi fra loro e comprenderanno anche meeting e dibattiti, sempre tenendo alta l’attenzione nei confronti dell’aspetto – imprescindibile – della ‘musica fatta dal vivo’. (Continua a leggere)

Dopo una lunga lotta col diabete, Clark Terry è alla fine scomparso ieri all’età di 94 anni (fonte). Era il più vecchio dei Grandi Vecchi del jazz rimasti in giro. Cosa dire di una delle trombe storiche del jazz? Ha suonato sia con Count Basie che con Duke Ellington, ha affrontato l’arrivo del be-bop adattandovisi senza colpo ferire, ha lavorato con JJ Johnson, Louis Armstrong, Charles Mingus, McCoy Tyner, Wes Montgomery, Sonny Rollins, Sarah Vaughn, Cecil Taylor, Ray Charles e qualunque altro grande, fu pure il primo musicista nero sul libro paga dell’emittente NBC in qualità di direttore della band del Tonight’s Show. E la sua tromba ha influenzato migliaia di artisti, a partire dal concittadino Miles Davis. Un lascito davvero enorme, il suo. RIP, come si dice in questi casi.

I Free Nelson Mandoomjazz sono un trio scozzese (Rebecca Sneddon al sassofono alto, Colin Stewart al basso e Paul Archibald alla batteria) che dal 2013, anno della formazione e delle prime registrazioni della band, si è prefissato un obiettivo ben preciso: trovare un punto di contatto tra il jazz e il doom metal.

Già i due EP pubblicati all’epoca lasciavano ben pochi dubbi sull’approccio del gruppo alla materia musicale: gli espliciti riferimenti nei titoli (‘The Shape of Doomjazz to Come’ e ‘Saxophone Giganticus’) e nelle copertine (che rivisitavano quelle dei classici “sbeffeggiati” sostituendo a Ornette Coleman e a Sonny Rollins la figura incappucciata della Sneddon, chiaramente omaggiando i Sunn O)))) ostentavano quel tipo di umorismo vagamente dissacrante di stampo Mostly Other People Do the Killing, mentre i brani accoppiavano una granitica base ritmica di scuola doom, con tanto di basso pesantemente distorto, ai volteggi pirotecnici del sassofono che strizzavano l’occhio all’ala più sperimentale e oltranzista del free jazz. A parte il fattore sorpresa per il connubio non usuale, comunque, non c’è molto da segnalare, vista anche l’immaturità con cui viene realizzato tale crossover stilistico. (Continua a leggere)

Se vogliamo esemplificare i danni che l’attuale dominio del marketing e delle sue imposte regole possono provocare sulle pubblicazioni discografiche aventi supposte pretese “artistiche”, ne abbiamo qui giusto una plastica rappresentazione, con questa uscita post mortem di Kenny Wheeler. Si sa, quando un grande jazzista ci lascia, sull’emozione del momento la domanda di mercato cresce e perciò è importante pubblicare qualcosa di suo, in barba alla valutazione della qualità musicale ed artistica del prodotto che si intende immettere sul mercato e, quel che più conta, manifestando una certa indifferenza per  il rispetto che si deve all’immagine dell’artista.

Mi domando seriamente che servizio si vuol rendere alla memoria di un così grande musicista pubblicandogli una prestazione del genere, che stringe il cuore ed è a tratti davvero imbarazzante. (Continua a leggere)

Non sappiamo in quale festival o locale si sia tenuto questo concerto di David Murray, ma vale certamente la pena di essere visto e ascoltato. Oltre all’inconfondibile sax del leader, spicca il piano del magnifico Lafayette Gilchrist (un nome su cui torneremo) e l’eterogenea proposta del quartetto, capace di fondere stili ed approcci diversi con naturalezza.


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