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DOMENICO CALIRI “CAMERA LIRICA”

Esce per l’etichetta Caligola Records “Camera Lirica” di Domenico Caliri: un disco sorprendente e trascinante. Una wunderkammer musicale

“Camera Lirica” è già disponibile su iTunes, sulle principali piattaforme di scarico digitale e su Bandcamp. La distribuzione è un’esclusiva I.R.D. Srl

Per Domenico Caliri un disco è qualcosa di più di una session particolarmente riuscita; rappresenta il risultato di un lavoro minuzioso e profondo, lungo se necessario.
La sua è una concezione musicale a 360 gradi in cui, accanto all’improvvisazione jazzistica, trovano spazio sia la composizione sia l’arrangiamento e nulla viene affidato al caso. (Continua a leggere)

Ecco un disco che sicuramente è candidato a vincere qualche referendum di fine anno delle riviste specializzate nazionali o europee e che ha già mandato in sollucchero molti appassionati del sedicente, acclamato, ”jazz europeo”, che pensano che questo tipo di musica rappresenti, se non il meglio del jazz sulla scena contemporanea, una degna evoluzione, decisamente migliorativa, di ciò che gli afroamericani hanno in passato costruito e in ciò che oggi viene posto, in modo estremamente generico e con una certa immotivata supponenza snobistica, nel calderone del mainstream jazzistico americano e afro-americano. Peccato che nella musica degli Angles 9 ci sia molto di europeo e davvero poco  jazz, perché, o i jazzofili di oggi si sono inopinatamente dimenticati della lezione indelebile e della grande arte degli Armstrong, degli Ellington, dei Parker e dei Mingus, o semplicemente patiscono un periodo di stato confusionale in materia, in quanto questa proposta manca, come minimo, di una peculiarità basilare del jazz senza la quale tale non si può definire, ossia una adeguata elaborazione in termini ritmici. (Continua a leggere)

Quando il sassofonista Arthur Blythe incide ‘Lenox Avenue Breakdown’ ha trentasette anni e un lungo apprendistato alle spalle: ha suonato con Horace Tapscott, Chico Hamilton e Gil Evans e ha già pubblicato due dischi a suo nome. In entrambi si mette in mostra come musicista avventuroso, per certi versi iconoclasta, ma lontano da qualsiasi forma di ermetismo. Emerge soprattutto l’intenzione di rileggere in chiave originale forme e repertorio della tradizione jazzistica, come già stavano facendo musicisti come Henry Threadgill, David Murray Julius Hemphill e Lester Bowie. In ‘Lenox Avenue Breakdown’, Blythe si pone l’obiettivo di dare una rappresentazione musicale di tutta la ricchezza sonora di Harlem (Lenox Avenue è la via principale del quartiere newyorkese) con un organico strumentale inconsueto: il flauto di James Newton in frontline, la chitarra di James Blood Ulmer, la tuba di Bob Stewart, una sezione ritmica deluxe formata da Cecil McBee e Jack DeJohnette. (Continua a leggere)

Era da qualche tempo che meditavo di scrivere un articolo approfondendo un tema già più volte sfiorato su queste pagine: quello degli artisti – spesso in crisi di popolarità – che tentano di rifarsi una verginità e riqualificarsi agli occhi di un certo pubblico tentando la fatidica carta del disco jazz. All’estero sembra più una questione di entertainment (e in questo senso, nessuno meglio del grande David Lee Roth, uno che sembra nato tanto per cantare in un casinò di Las Vegas quanto su uno sterminato palco tra le cascate di scintille dei fuochi pirotecnici e quelle di watt delle chitarre elettriche), è infatti questo l’approccio che, a prescindere dalla bontà dei risultati (tutt’altro che entusiasmante), sembra animare dischi come quello di Robbie Williams o finanche quello di Paul McCartney, che si divertono a riproporre standard come se non ci fosse un domani. Qui da noi invece la “svolta jazz” spesso cela pretese non solo intellettuali ma anche narcisistiche. Sì, perchè di solito, e perdonateci la brutale generalizzazione, il cantautore di turno pretende di “diventare jazz” non andando a cimentarsi con i rassicuranti standard di cui sopra, bensì rileggendo il suo stesso repertorio con l’aggiunta di un contrabbasso e un po’ di plin plin plin pianistico, in attesa che qualcuno ci caschi e parli di “raggiunta maturità”. E puntualmente accade. (Continua a leggere)

Come un polipo che ha solo una testa ma con i tentacoli esplora l’ambiente circostante in molte direzioni, come una creatura negli abissi marini si muove questo buon gruppo di improvvisatori formato da Alberto Collodel (alto and bass clarinet, korg monotron), Marcello Giannandrea (bassoon), Nicola Negri (trumpet), Niccolò Romanin (drums), Giambattista Tornielli (cello), Luca Ventimiglia (vibraphone), Piero Bittolo Bon, musicista che è da tempo garanzia di buona musica (alto and baritone sax, flute, electronics), e che vede come leader e compositore Riccardo Marogna (clarinet, bass clarinet, tenor sax).
L’album si intitola Oktopus Connection, registrato live ad Aprile del 2013 allo Spazio Clang di Padova (non sapete cos’è? proprio qui su FreeFallJazz troverete un’intervista che vi illuminerà). Il suono è ben curato dallo studiomobile80, l’etichetta è Setola di Maiale. (Continua a leggere)

Prosegue la condivisione domenicale di filmati della serie ‘Beyond Category’, visto che sono ottimi e numerosi. Oggi tocca al trio del bravissimo James Brandon Lewis, autore di uno dei dischi più acclamati del 2014.


Wadada Leo Smith è di nuovo fra noi con un mastodontico disco doppio, ‘The Great Lakes Suite’. Come si può immaginare dal titolo, il trombettista stavolta si è ispirato ai grandi laghi del nord degli Stati Uniti. Ad accompagnare Leo Smith troviamo John Lindberg (contrabbasso) e Jack DeJohnette (batteria), entrambi già compagni del leader in diverse occasioni. La splendida batteria di DeJohnette, attentissima alle esigenze dell’atmosfera e del solista del momento, amplifica la varietà della tessitura sonora in tandem con le robuste contromelodie del contrabbasso. La frontline invece viene completata dal sax e dai flauti di Henry Threadgill, per la prima volta assieme a Smith. (Continua a leggere)

I Fieldwork sono un trio che schiera i talenti di Steve Lehman (sax), Vijay Iyer (piano) e Tyshawn Sorey (batteria). La loro musica è cerebrale e geometrica, ma non per questo priva di interesse, come possiamo ascoltare in questa ripresa di un’ora nell’angusto spazio dello Stone, spazio performance no-profit dell’underground newyorkese.


In Italia abbiamo due trombettisti che da anni dominano la scena jazzistica nazionale e sono tra i più noti anche all’estero, portati in palmo di mano pressoché da tutti: informazione, critica e gran parte del pubblico, immagine di un sedicente “Made in Italy” jazzistico, sempre più orgogliosamente e autarchicamente esibito. (Continua a leggere)

Tra Musica e Scienza ci sono molte più affinità di quanto non si creda in prima istanza e non solo sul piano meramente fisico, legato alla produzione dei suoni, ma anche in termini di logica costruzione formale e strutturale. Per questo gli organizzatori di Bergamo Scienza in tutte le edizioni propongono ogni anno qualche tema legato alla musica, ingaggiando qualche affermato musicista per un’esibizione concertistica. A chiusura della XII edizione, gli organizzatori della manifestazione hanno ritenuto interessante invitare il contrabbassista e compositore Avishai Cohen con il suo trio completato da Nitai Hershkovits al piano e Daniel Dor alla batteria. (Continua a leggere)

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