FREE FALL JAZZ

Archive for " settembre, 2013 "

‘Functional Arrhythmias’ parte dall’idea di tradurre in musica le interazioni fra i vari sistemi dell’organismo – nervoso, respiratorio, circolatorio eccetera. Stravagante, dirà qualcuno. Non meno di tutto il resto della produzione del buon Steve, che ha sempre motivato teoricamente ogni sua opera. E nonostante la complessità della premessa, ‘Functional Arrhytmias’ è l’album più immediato e accessibile pubblicato dal contraltista di Chicago negli ultimi dieci anni. Tanto per iniziare, non ci sono cantanti: per brava che fosse Jen Shyu, la sua voce-come-strumento poteva risultare fastidiosa nel lungo termine. Adesso abbiamo un quartetto, dove colpisce innanzitutto la fantastica tromba del “giovane veterano” Jonathan Finlayson (un nome su cui ritorneremo), ma che in realtà è eccellente da qualsiasi punto di vista: nei ritmi funky scanditi dal discreto basso di Anthony Tidd, nelle complesse trame batteristiche di Sean Rickman, che combina legno e metallo con un attacco secco, hip-hop, per finire con l’aguzzo contralto del leader. (Continua a leggere)

Foto di DMV Comunicazione/Titti Fabozzi

Avevo pensato di aprire queste righe con un’introduzione tipo “Sabato sera ho visto il jazz. Il suo nome è Benny Golson”: pomposa quanto volete, ma, vi giuro, neanche troppo lontana dalla realtà. Di concerti (non solo jazz) ne ho visti tanti, ma davvero pochi sono quelli in cui lo spettacolo sul palco è capace di coinvolgere per tutto il tempo senza punti morti e, soprattutto, di lasciarti sulle labbra un sorriso a 32 denti, misto di divertimento e soddisfazione. Benny Golson ci è riuscito. E ci è riuscito perché sul palco il primo a divertirsi, forse anche più di noi, è lui stesso. Quelle assi le calca con l’entusiasmo del primo giorno: lo scruti un paio di minuti ed è chiarissimo che a lui piace stare lì e non desidera altro. (Continua a leggere)



Questo sketch di Fiorello dice più di mille analisi sullo strano rapporto fra jazz e Italia, diciamoci la verità e aggiungiamo “purtroppo”…

Foto di DMV Comunicazione/Titti Fabozzi

Archie Shepp sull’afrocentrismo del jazz (o, per dirla con parole sue, di “quella parola inventata dai bianchi per descrivere l’esperienza afroamericana”) ha sempre avuto idee forti e non troppo inclini a compromessi. Fa strano vederlo dividere il palco con musicisti dall’epidermide tutt’altro che scura (bianchi che, citando la stessa intervista, “hanno imitato tutto dei neri”), per di più a suonare canzoni che con “l’esperienza afroamericana” non hanno proprio nulla a che spartire.

Grande apertura mentale o, più maliziosamente, professionista ben retribuito, ma quale che sia non ci interessa: non è un processo alle intenzioni il nostro, quanto un’analisi dei risultati. Il quartetto di Archie Shepp, come annunciato, si è infatti esibito all’ormai storico appuntamento di Pomigliano accompagnato dall’Orchestra Napoletana di Jazz cercando di imbastire un ponte tra due tradizioni antipodiche come la musica nera americana e la canzone classica partenopea (e, come vedremo, non solo). (Continua a leggere)

Come festeggiare venticinque anni di una delle migliori orchestre jazz del pianeta? Ma con un bel concerto, ovviamente! Tipo questo, in Portogallo, in occasione dell’illustre genetliaco!


Cliccate per ingrandire l’immagine qui sopra. Si tratta dell’orchestra di Ambrose Akinmusire, che ha suonato il 3 dicembre 2011 alla Carnegie Hall. Oltre ad Ambrose, ci trovate, fra gli altri, Sean Jones, Jason Palmer, Josh Roseman, Tia Fuller, Walter Smith III, Marcus Strickland, Dayna Stephens… Come ha detto Nico Toscani, “li morté, pare una formazione di fantacalcio. Esisteranno registrazioni di tanto ben di Satana?” Purtroppo neppure YouTube ci viene in soccorso, e quindi possiamo solo fantasticare. Ok, magari poi fa schifo, ma prevale un certo pregiudizio positivo, diciamo così. Consoliamoci con una bella notizia, risalente al 30 di luglio: Ambrose Akinmusire ha finito di registrare il suo nuovo album che verrà pubblicato agli inizi del 2014, nella sempre più diffusa formula del quintetto base + ospiti. (fonte)

Di recente, in occasione del nuovo, ottimo album di Etienne Charles, parlavamo del solido legame che unisce il jazz con i luoghi e le sonorità dell’America centro-meridionale. Una parentela dalle origini antiche (basti citare il caso forse più famoso, Dizzy Gillespie, che abbeverandosi a quelle fonti ha prodotto alcuni dei migliori episodi della sua sterminata carriera) e che ancora oggi perdura con immutata efficacia grazie alle intuizioni di musicisti come James Carter o lo stesso Charles. Tra coloro che nel tempo hanno strizzato l’occhio alle sonorità caraibiche, quello di Freddie Hubbard non è tuttavia il primo nome a venire in mente. Anzi, nemmeno il secondo o il terzo.  Lo si può identificare coi suoi capolavori su Blue Note, con la svolta più “facile” (e assai meno riuscita) verso territori soul/funk, finanche con una manciata di dischi piuttosto sperimentali per i suoi canoni (l’ottimo ‘Red Clay’, da riscoprire), eppure, per quanto trascurato, in certe zone geografico-musicali ci è passato anche lui. Con ottimi risultati, per giunta. (Continua a leggere)

Ho “conosciuto” Jimmy Fontana poco più di un anno fa, forse un anno e mezzo. Abbiamo scambiato qualche riga via mail concordando una possibile intervista. “Considerami a tua completa disposizione”, mi disse, gentilissimo, confermando una passione sentita e sincera.

Non sono in molti a saperlo, ma prima dei ben noti successi nel campo della musica leggera, Jimmy Fontana era cresciuto nella sua Macerata (a Camerino, per la precisione) appassionandosi ai grandi del jazz d’oltreoceano. All’anagrafe si chiamava Enrico Sbriccoli, e proprio ad uno dei suoi idoli, Jimmy Giuffre, si ispirò quando fu il momento di scegliere un nome con cui proporsi al pubblico. In quegli anni pionieristici Jimmy Fontana, contrabbassista autodidatta ancor prima che cantante, diede il suo contributo alla diffusione del jazz nel nostro paese, esibendosi con diverse formazioni anche dopo il suo trasferimento nella capitale, che lo vide passare nelle fila della Roman New Orleans Jazz Band, tra le altre.

Avremmo dovuto rievocare quei giorni, nell’intervista. Io nel frattempo avevo anche iniziato a scrivere un articolo da pubblicare a corredo, incentrato sulle sue incisioni jazz (almeno quelle in mio possesso), ma lui nel frattempo smise di farsi sentire e la paventata chiacchierata non andò mai in porto. Stasera tutti i canali d’informazione parlano della sua scomparsa, annunciandolo come “malato da tempo”: ovviamente non lo sapevo  (notizie trapelate dopo l’iniziale redazione di queste righe smentiscono la lunga malattia. La sostanza però, purtroppo, non cambia). Per un attimo il mondo, almeno il mio, si è fermato davvero, se mi concedete la parafrasi ruffiana e facilona di quel suo grande successo.

Magari su quegli anni jazz ci torneremo: sarà di certo il modo migliore per ricordarlo. Mi piace credere che sia d’accordo anche lui. (Nico Toscani)

La recensione dell’ultimo ‘Functional Arrhytmias’ si avvicina, ma nel frattempo la pesca a strascico sul Tubo porta alla nostra attenzione questo bellissimo concerto: Steve Coleman nella formazione Reflex Trio, che comprende l’astro nascente del pianoforte David Virelles e il batterista Marcus Gilmore. Due ore di livello altissimo. Bando alle ciance, via!



Nel 2010 Sonny Rollins ha compiuto ottant’anni, celebrati con un bellissimo tour che ha toccato pure Bologna (chi scrive era presente e ricorda la serata con grande emozione). (Continua a leggere)

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