Negli ultimi anni e dopo decenni di ascolto, ho avuto modo di approfondire le conoscenze jazzistiche (e non solo) anche verso opere di una molteplicità di grandi musicisti (compositori e/o improvvisatori che dir si voglia) generalmente considerati “minori” rispetto ai riconosciuti giganti del jazz, rendendomi conto di quale abbondanza di arte musicale si è sciaguratamente trascurata, sia dal punto di vista del materiale compositivo, che da quello improvvisativo, in nome di un non meglio specificato processo di innovazione, così rapidamente evolutosi nel tempo. (Continua a leggere)
La lettura in questi mesi di diversi scritti in rete sulla materia jazzistica mi ha condotto a riflettere sul modo nel quale viene oggi maggioritariamente inteso il jazz nel nostro paese e a scrivere qualche riga intorno al provocatorio tema indicato nel titolo. (Continua a leggere)
Quale tipo di patrimonio culturale costituisca la tradizione musicale accademica occidentale è dato noto più o meno a tutti, anche a coloro che non la frequentano abitualmente. In Italia si accusa spesso il contesto accademico di essere centripeto se non addirittura retrivo, di essere poco incline a capire, accettare o valutare tutto ciò che gli appare esotico, eccentrico, esogeno, tutto ciò che non rientra nel Canone. (Continua a leggere)
È sempre più frequente sentire intorno al jazz discorsi che tendono a rimarcare più che la centralità del contributo afro-americano, di quello europeo, in una sorta di revisionismo storico e critico da tempo in corso che come minimo lascia perplessi. (Continua a leggere)
C’è in questo periodo in tv una divertente pubblicità di un ragazzotto un po’ cicciottello, bianco come il latte in un momento dell’anno dedicato alle ferie e a devastanti (e devastate…) abbronzature, che riscuote, nonostante l’aria un po’ “nerd”, successo con le donne, che lo guardano adoranti mentre passa con facilità dall’impennare la bici, spaccare i mattoni con un colpo d’arte marziale, suonare il sax correndo sullo skateboard e gettarsi da un trampolino di piscina su un materassino ad acqua, cantando “Baby I’m Cool”. (Continua a leggere)
Estate, periodo tradizionale di grandi festival musicali, in particolare del jazz, almeno così si dice. Già, perché di jazz da parecchio tempo se ne sente sempre meno e per svariate ragioni. A fronte di affermazioni di questo genere il minimo che può capitare è sentirsi dare del retrivo conservatore, del “purista” vecchio ed ottuso e pure un po’ rincoglionito, insomma uno che non sta al passo con i tempi, perché il jazz, secondo vulgata, è ormai un linguaggio universale fuso con altri linguaggi musicali. (Continua a leggere)
Negli ultimi tempi ho recensito diversi album molto recenti, tutti quanti di ottimo livello, che presi di per sé restituiscono un’immagine estremamente positiva del jazz più recente. C’è una cosa che accomuna tutti questi album, e non è tanto la musica, quanto l’aspetto discografico: sono usciti per case specializzate in jazz (Criss Cross, Blue Note, la neonata Smoke, Nonesuch, Concord, OKeh, Highnote, Delmark, AUM, Pi e altre ancora), o sulle etichette personali fondate dai musicisti stessi per gestirsi in prima persona. (Continua a leggere)
Il teatro di rivista, o rivista, era una forma teatrale molto in voga nello primo trentennio del ’900. Si trattava di una serie di numeri (musicali, danza, sketch comici) a catena, dal carattere spesso ironico quando non satirico verso gli avvenimenti e le personalità del periodo. Battute mordaci e nudità femminile non erano mai assenti. (Continua a leggere)
Diciamoci la verità. In Italia il jazz, o quello che comunemente si passa oggi per tale in modo talvolta ambiguo e discutibile, è una musica diventata da tempo di nicchia, che interessa ad una parte ristrettissima di cultori e fruitori più o meno costanti, per lo più anche abbastanza attempati. Si dice che la cosa dipenda fondamentalmente da una pessima educazione musicale, specie a livello scolastico, e più in generale da un degrado culturale da tempo progressivamente in corso. (Continua a leggere)
Possiamo leggere da questo link che IL JAZZ ITALIANO potrà accedere ai fondi del FUS, il Fondo Unico per lo Spettacolo. E’ lo stesso fondo cui accedono le mediamente agghiaccianti produzioni cinematografiche nostrane, e knowing our chickens, la situazione del jazz in Italia si farà sempre più agghiacciante, di conseguenza: cosa non si fa per fondi statali a piogga? (Continua a leggere)